spot_img

Biden, il partito democratico e le elezioni


Grande attesa per domani quando Biden presiederà la conferenza stampa conclusiva al summit Nato in corso a Washington. Un nuovo test della brillantezza del presidente. Se anche questa conferenza stampa dovesse andare male, si apre un quadro caotico di difficile soluzione.

Più il tempo passa più il partito democratico rischia di lacerarsi. Il disastroso dibattito di Joe Biden con Donald Trump del 27 giugno ha lasciato strascichi dolorosi in casa dem. Nelle ultime settimane le fila di chi ha espresso grossi dubbi sulla ricandidatura del presidente 81enne si sono via via ingrossate. Biden, dal canto suo, ha prima incassato il colpo e poi provato a giocare in attacco. Il problema è che si sta creando una spaccatura sempre più profonda nel partito che il tempo può solo peggiorare.

La paura in casa dem ha preso direzioni diverse. C'è chi ha chiesto apertamente al presidente un passo indietro, è il caso ad esempio di 9 deputati, quattro in modo riservato durante una riunione di partito, mentre altri cinque lo hanno fatto apertamente. Altri hanno invece scelto una formula più prudente, esprimendo seria preoccupazione. Tra di loro deputati, ma anche due senatori e due governatori. C'è poi una terza categoria, quella che ha scelto di sospendere il giudizio. Sono quelli che sfidano Biden a dimostrare di essere ancora in grado di condurre una campagna elettorale. In particolare la richiesta è che lo staff di Biden lo lasci libero di andare fuori dai normali copioni, di parlare a braccio e magari senza l'onnipresente telepromoter. Ma più passano i giorni, più il fronte preoccupato della capacità del presidente di tenere testa a Trump si compatta.

Biden ha risposto a modo suo. Ha tenuto un paio di interviste, la più attesa quella andata in onda su Abc News, e una serie di eventi tra Wisconsin e Pennsylvania. Ma secondo i critici più duri le uscite non hanno trasmesso la sensazione di solidità necessaria a fermare Donald Trump. Dopo settimane di strategia difensiva il presidente ha deciso di passare al contrattacco. L'8 luglio ha assestato tre colpi alla fronda che chiede un suo passo indietro. Il primo molto istituzionale, con una lettera di due pagine inviata a tutti gli esponenti del Congresso nella quale indica in modo molto fermo che "è fermamente impegnato nel restare in corsa e restare fino alla fine per battere Donald Trump". Ma non solo. Nella sua missiva Biden esorta il partito all'unità sottolineando come "la questione su come andare avanti sia stata discussa da oltre una settimana e che sia ormai ora di finirla".

Il secondo ha riguardato un promemoria che il suo comitato elettorale ha inviato a tutti gli uffici elettorali dem domenica 7 luglio. Nel memo, pubblicato dal Washington Post, gli uomini del presidente sottolineavano che dopo il dibattito il presidente ha tenuto ben 15 eventi, pubblici e privati. Un segnale che la macchina elettorale non si è mai fermata.

Il terzo colpo, quello più rumoroso, è arrivato con una telefonata dello stesso Biden a Msnbc, al programma Morning Joe. "Mi sento così frustrato dalle élite", ha attaccato a testa bassa il presidente, "parlo delle élite che ci sono nel partito. Tutte queste persone che non pensano che mi dovrei candidare, corrano contro di me, mi sfidino alla convention". Per la prima volta Biden non solo ha attaccato chi gli chiede un passo indietro, ma ha svelato qual è la strategia che intende usare contro l'assedio degli esponenti del suo partito e cioè appellarsi alla base. Si tratta di una tecnica già adottata da Biden nel 2020: attaccare le élite bianche e liberal dimostrando che in realtà il partito è più diversificato, facendo appello ai colletti blu (e quindi i sindacati) e alle minoranze, in particolare gli afroamericani. Due segmenti che hanno sempre appoggiato Biden e gli garantirono di riprendere quota durante le primarie di quattro anni fa partite molto male. Non a caso i primi viaggi di Biden post dibattito sono arrivati in quel Mid-West vitale per la sua rielezione. In una congregazione afroamericana a Philadelphia e in un meeting coi lavoratori dei sindacati sempre in Pennsylvania. Come ha notato l'editorialista Jonathan Martin su Politico, il movimento dem che chiede a Biden un passo indietro non sembra molto ancorato agli elettori. L'impressione è che la base, almeno per il momento, sia convinta del Biden candidato.

La strategia di Biden potrebbe funzionare ma è rischiosa. Da un lato perché basterebbe qualche dietrofront di deputati o leader della comunità afroamericana per far crollare tutto, ma anche e soprattutto perché il suo eventuale sostituto sarebbe la sua vicepresidente Kamala Harris, un simbolo delle minoranze. A ridosso del dibattito l'ex senatrice dem era apparsa come la prima alternativa capace di avvicinarsi a Donald Trump nei sondaggi. La pessima performance di Biden lo ha fatto arretrare nelle rilevazioni, con perdite tra i due e sei punti percentuali. Oggi i sondaggi non danno indicazioni chiarissime, se il calo di Biden sia continuo oppure se sia vicino a un rimbalzo. Ad esempio una recente rilevazione di Bloomberg e del Morning Consult ha individuato che Biden ha ridotto la forbice con Trump negli Stati in bilico, con un divario medio di soli due punti, ampiamente nel margine di errore. Secondo quel sondaggio Biden è addirittura avanti in due Stati vitali: Michigan (+5%) e Wisconsin (+3%). Negli altri è indietro, ma sempre nel margine di errore, -1% in Georgia, -3% in Arizona, Nevada e Nord Carolina. Unico da allarme rosso la Pennsylvania, dove è indietro di ben 7 punti su Trump.

È presto per dire se l'offensiva di Biden avrà effetti. Come ha scritto il Washington Post, la strategia del comitato Biden non ha convinto tutti, anzi ha fatto scoppiare nuovi mal di pancia. Ad esempio molti deputati e consiglieri della sinistra americana insistono che vorrebbero vedere Biden più attivo nella campagna elettorale, che il presidente sarebbe dovuto partire subito dopo lo scontro con Trump e che il controllo del danno post-dibattito è partito troppo in ritardo.

I mal di pancia non arrivano solo dai politici. Anche dal fortino di Pennsylvania Avenue si leva qualche voce contraria. Il New York Times ha sentito un membro senior dello staff, che ha lavorato con Biden sia ai tempi in cui era vice di Barack Obama, che alla campagna elettorale del 2020 e ha detto che avendo lavorato a lungo con il presidente sente che non ha il vigore necessario per battere il tycoon. Secondo il funzionario, Biden ha vissuto un vero e proprio crollo negli ultimi mesi, inclusa l'abitudine a parlare lentamente e in modo esitante, ma anche apparendo sempre molto stanco.

I dubbi attanagliano anche la mente dei grandi finanziatori. Nei giorni successivi alla debacle televisiva una fetta consistente dei donatori ha iniziato a considerare l'ipotesi di congelare i fondi, magari dirottandoli verso le campagne elettorali per il Congresso. Nelle stesse ore in cui l'ex senatore del Delaware ha inviato la sua lettera ai deputati, ha tenuto una telefonata di circa 20 minuti con il suo comitato finanziario che include anche diversi donatori. Anche qui il messaggio è stato lo stesso: "Smettiamo di perdere tempo".

Il punto, come ha scritto il Financial Times, è che i grandi paperoni dem iniziano a guardare con interesse ad altri potenziali candidati. Due fra tutti: la governatrice del Michigan, Gretchen Whitmer e il governatore della California, Gavin Newsom. I due, fin da subito, hanno confermato l'appoggio incondizionato a Biden. La stessa Whitmer ha detto che non intende candidarsi nemmeno se il presidente dovesse fare un passo indietro. Nonostante questo, i finanziatori indicano che si sta creando un consenso sempre più ampio nei loro confronti.

A differenza di deputati e senatori, i papabili candidati a sostituire Biden dichiarano la loro fedeltà al presidente e restano alla finestra. Al partito democratico non mancano alternative che possono piacere agli elettori. A Whitmer e Newsom si aggiungono altri governatori, come J. B. Pritzker dell'Illinois, Andy Beshear del Kentucky e Josh Shapiro della Pennsylvania. E poi c'è sempre la carta Kamala Harris. L'ex senatrice della California negli ultimi giorni ha scelto di stare al fianco di Biden mostrando un volto istituzionale. Atteggiamenti che puntano a tenere il partito compatto.

Come ha scritto Axios la prossima tappa, forse decisiva, sarà il summit Nato che ha preso il via il 9 luglio a Washington. La data da segnare nel calendario è l'ultimo giorno, quando Biden presiederà la conferenza stampa conclusiva. Dove si testerà, di nuovo, la brillantezza del presidente. Se anche questa conferenza stampa dovesse andare male, il fortino eretto dallo staff di Biden potrebbe cedere. Il problema è che i dem hanno sempre meno giorni per attivare il freno d'emergenza, per convergere su un nome che unifichi tutti, elettori, leader del partito e finanziatori, prima della convention. Un percorso difficile e possibile solo se Biden getta la spugna. Ma anche qui non è detto basti la buona volontà. Le anime liberal si scontrerebbero con quelle moderate, il mondo operaio dei colletti blu con quello dei donatori di Wall Street. In un quadro caotico di difficile soluzione.

Arrivare divisi, lacerati e senza una leadership riconosciuta alla convention, apre scenari da incubo. Una situazione già vista nel 1968 quando un partito spaccato, incapace di esprimere un nome forte dopo il passo indietro di Lyndon Johnson e l'assassinio di Robert Kennedy, si riunì a Chicago assediato all'esterno dalla contestazione degli studenti e del movimento contro la guerra del Vietnam. Una riunione che partorì un nome senza appeal sugli elettori, senza strutture sul territorio e destinato alla sconfitta rovinosa. I dem sono avvisati. E il tempo scorre.

ARTICOLI CORRELATI

Stati Uniti: il crollo verticale dei democratici

Trump presidente: le reazioni in Africa

Elezioni Usa: l'importanza del voto latino

Elezioni USA viste da Cina e Asia

rivista di geopolitica, geopolitica e notizie dal mondo