Oltre un milione di Rohingya, Burmesi di fede islamica da generazioni in Myanmar, subiscono dal 1948 (anno dell’indipendenza dalla corona britannica) discriminazione e delegittimazione politica. I vari governi alternatisi -compreso quello della criticatissima Aung San Suu Kyi, ex premio Nobel per la Pace- spalleggiati da forze armate e monaci buddhisti, li hanno considerati Bengalesi immigrati illegalmente dal Bangladesh. Hanno perpetrato un “genocidio nascosto” tramite la violazione sistematica dei diritti di cittadinanza e circolazione, eccidi di massa, arresti arbitrari, stupri, distruzione e confisca dei villaggi. Le motivazioni non sono esclusivamente religiose; risiedono anche nell’esproprio delle terre per favorire il rilancio economico e industriale del paese, e nella necessità di controllo manu militari dell’arretrato Rakhine, lo Stato in cui larga parte dei Rohingya vivono.
In seguito agli assalti e le violenze da parte della popolazione buddhista nel 2012, i Rohingya hanno dovuto abbandonare i propri villaggi. Oggi 120.000 Rohingya vivono in 36 campi IDPs (Internally Displaced Persons); 280000 continuano a vivere nei villaggi. Patiscono mancanza di cibo, acqua e cure mediche. Varie ONG nazionali e internazionali forniscono aiuti umanitari a campi IDPs e villaggi intorno Sittwe, capitale del Rakhine. Come la Sittwe Program and Development Organization, che per conto dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati distribuisce cibo a 900 famiglie (circa 4000 persone). Arkar, 24 anni, da Yangon, ne è il coordinatore e ci conduce nell’area dove sono confinati i Rohingya, a 20 minuti di auto da Sittwe (per esplicita richiesta dell’organizzazione, i nomi di persone e dell’organizzazione sono stati modificati, mentre i nomi dei villaggi sono stati omessi, n.d.a.).
Una sbarra arrugginita, sempre sollevata e presidiata da un militare visibilmente annoiato, separa i Rohingya dalla “normalità” burmese. Oltre, la strada principale si sviluppa rettilinea per chilometri. Aree militari si alternano alla boscaglia separati da mura scrostate. Alcune persone sono impegnate nella riparazione e tinteggiatura delle mura, altre nella pavimentazione stradale, impastando calce e posizionando a mano una pietra alla volta. Lavoretti estemporanei da pochi soldi, svolti con estrema lentezza da uomini e donne di tutte le età (ma si intravedono anche bambini) che – afferma Arkar- sono sia Burmesi che Rohingya. Insieme al minuscolo commercio all’ingrosso di beni rivenduti nei villaggi, questi lavoretti rappresentano una delle pochissime occasioni di incontro tra i due gruppi.
Dalla strada principale si dipanano sentieri sconnessi di terra o ciottolato che dopo chilometri conducono ai villaggi e ai campi, da cui i Rohingya non possono uscire. Chi vive nei villaggi può spostarsi per visite o piccole compere, ma non camminare a piedi sulla strada principale. Per uscire dai villaggi è necessario affittare scooter o furgoncini-taxi, con costi spesso insostenibili. Chi vive nei campi affronta una situazione ancora più difficile: per entrare (e uscire) bisogna oltrepassare due check point militari, al primo dei quali bisogna consegnare una mazzetta.
Kyaw ha 23 anni. Il villaggio in cui viveva con i suoi genitori, gestori di uno spaccio di medicinali, fu distrutto nel 2012. Dovettero scappare e giunsero al villaggio in cui ci incontriamo. Rifocillati per giorni con acqua e riso e accampati ai lati di un’abitazione, impiegarono del tempo prima di ricostruire una nuova, seppur misera, casa. Come tutti non ha un lavoro; da qualche mese supervisiona la distribuzione di cibo nell’area per conto della ONG di Arkar. Ha gli occhi vispi di chi vorrebbe spaccare il mondo ma lo sguardo malinconico e innocente di chi non può perché costretto a non avere nulla. La sua storia è simile a quella di molti. Come Soe, 46 anni, che prima del 2012 produceva latte ed era proprietario di una casa con annesso pascolo per gli animali. Il governo gli confiscò tutto accusandolo di non essere proprietario, nonostante tutta la documentazione presentata attestasse il contrario. Costretto a vendere anche gli animali, ha trovato rifugio nel campo IDP. A quel che sa, sui suoi terreni ora sorgono edifici governativi.
Le abitazioni sono in bambù, legno e materiali di fortuna. Nei campi, buona parte di esse sono state costruite dalle ONG. I terreni sono prevalentemente sabbiosi e aridi e non consentono agricoltura produttiva o redditizia. Nella polvere razzolano oche e galline rachitiche, qualche mucca o capra macilenta. In alcuni villaggi si vendono carni e verdure o si trovano dei punti di ristoro; i clienti sono pochi abitanti che possono permetterselo o qualche militare in giro di perlustrazione. Non c’è elettricità. Non c’è acqua, che viene fornita dalle ONG in contenitori di plastica o da pozzi rudimentali. Non ci sono bagni; in alcuni campi sono stati disposti in fila dei bugigattoli di legno con un buco al centro. Numerati, uno per ogni famiglia.
L’ONG di Arkar fornisce anche assistenza medica di base, grazie a una clinica mobile e uno spazio per il supporto a donne incinte, ma non assicura copertura notturna. Per uscire dal campo per visite specialistiche o ricovero negli ospedali di Sittwe si incontrano molte difficoltà. Il richiedente deve essere autorizzato dal governo, che solitamente prende tempo; in caso di urgenza è poi improbabile che il governo accolga tempestivamente la richiesta. Inoltre, bisogna lasciare denaro ai militari per uscire. Molti Rohingya non ripongono comunque fiducia negli ospedali di Sittwe; sanno di essere malvisti e hanno paura -come accaduto- che le cure siano appositamente superficiali o inadeguate. Due giovani donne raccontano di avere gonfiore, perdita di sensibilità e forti dolori alle ginocchia. Hanno difficoltà a camminare e sono sorrette da due persone anche per percorrere pochi metri: i loro volti sono molto sofferenti. Nonostante i consigli della clinica non sono andate all’ospedale; una delle due, pur avendo dolori da oltre sei mesi, afferma infatti che a Sittwe la farebbero morire.
Nonostante gli sforzi, gli aiuti umanitari sono insufficienti rispetto alle esigenze della popolazione. La scarsità di cibo e acqua e le precarie condizioni igieniche e sanitarie comportano alti tassi di mortalità, in particolare infantile. Una donna anziana afferma che circa 500 bambini al di sotto di cinque anni sono morti nell’area dal 2012, 200 dei quali al di sotto di un anno, principalmente per dissenteria.
I volti sembrano essere senza speranza. Un uomo consegna una lettera, scritta a mano, in cui racconta la discriminazione da parte del governo e le proprie sofferenze. Chiede riscatto per il suo popolo, racconta il supporto delle ONG, e prega di fare il possibile per testimoniare la condizione dei Rohingya. A cui, probabilmente, non resta che morire.
Alcune immagini scattate da Giuseppe Forino nei campi IDPs in cui sono costretti a vivere i Rohingya in Birmania
In seguito agli assalti e le violenze da parte della popolazione buddhista nel 2012, i Rohingya hanno dovuto abbandonare i propri villaggi. Oggi 120.000 Rohingya vivono in 36 campi IDPs (Internally Displaced Persons); 280000 continuano a vivere nei villaggi. Patiscono mancanza di cibo, acqua e cure mediche. Varie ONG nazionali e internazionali forniscono aiuti umanitari a campi IDPs e villaggi intorno Sittwe, capitale del Rakhine. Come la Sittwe Program and Development Organization, che per conto dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati distribuisce cibo a 900 famiglie (circa 4000 persone). Arkar, 24 anni, da Yangon, ne è il coordinatore e ci conduce nell’area dove sono confinati i Rohingya, a 20 minuti di auto da Sittwe (per esplicita richiesta dell’organizzazione, i nomi di persone e dell’organizzazione sono stati modificati, mentre i nomi dei villaggi sono stati omessi, n.d.a.).