Costretti a scappare quando arrivano i jihadisti, quattro cristiani trovano rifugio in Giordania. E grazie all’ong italiana Un ponte per… (e al maestro della pala Tony), imparano anche un nuovo mestiere. La pizzeria al taglio funziona. Ma non può durare
Dalle minacce di Daish alla cucina di “Maestro Tony”. Sono traiettorie di vita spesso improbabili quelle che si incontrano guardando i conflitti del mondo con la lente di ingrandimento. Si incontrano, per esempio, le storie di Majdi, George, Michael, e Rami (i nomi sono stati modificati per proteggere la loro identità), cristiani iracheni, fuggiti nel 2014 dal terrore di Daesh (l’acronimo arabo di ISIS) e oggi protagonisti di un progetto della Nunziatura Apostolica di Amman e della Ong italiana Un Ponte Per che, dopo aver loro fornito la formazione di “maestro Tony” (il cui vero nome èTonino Biasi), cuoco e ristoratore professionista arrivato appositamente dall’Italia, li hanno aiutati a creare la prima pizzeria al taglio in stile italiano di Amman.
Per loro è una nuova pagina, finalmente positiva, di una fuga che appena tre anni fa li ha portati a lasciare le loro case e gran parte dei loro averi in fretta e furia. “Un giorno sono uscito da casa mia per andare a fare la spesa in un quartiere vicino”, racconta Majdi, un tempo cittadino di Mosul, “ma le milizie avevano occupato il quartiere. Mi hanno detto che non potevo più passare da quella zona” – continua ricordando i giorni che precedettero la presa definitiva della città da parte di ISIS nell’estate 2014 – “Mi dissero che i cristiani non erano più accettati. Pochi giorni dopo sono scappato con la mia famiglia”.
George e Michael invece vengono da Qaraqosh, cittadina cristiana tra Mosul ed Erbil oggi quasi interamente abbandonata. “A Qaraqosh facevo l’elettricista. Avevo una bella casa, una macchina e soldi da parte”, racconta George, “Daesh si è preso tutto”. Insieme a molte famiglie cristiane fuggono quando gli eventi cominciano a precipitare e l’esercito iracheno si sgretola davanti all’avanzata dello Stato Islamico.
Fuggono a Erbil, e poi, grazie all’assistenza della Chiesa e dello stato giordano che mette a disposizione il trasporto, alcune decine di queste famiglie vengono portate ad Amman, Giordania. Nel quartiere centrale di Jabal Amman vengono accolte dalla piccola comunità cristiana. La parrocchia di San Giuseppe (Mar Yousuf) offre loro la prima accoglienza e la comunità cerca di assisterli come può. Ma in Giordania i rifugiati iracheni non hanno il permesso di lavorare e, ben presto, i pochi risparmi che sono riusciti a portare con sé cominciano a non bastare.
“Sono fortunati perché questa comunità li ha praticamente adottati” – spiega Mattia Rizzi, project manager di Un Ponte Per – “tra le famiglie che ospitavano ci hanno indicato i padri di famiglia che più avevano bisogno di assistenza”. Mentre la sede locale della Cooperazione Italiana ha fornito i fondi per la formazione, la Nunziatura vaticana, proprietaria della Chiesa e degli edifici annessi, ha fornito, insieme al Convento di Assisi, i locali e i macchinari.
Sono fortunati perché in molti altri progetti per la formazione professionale dei rifugiati, in Giordania come in Libano, ci si incontra spesso con le resistenze delle comunità locali che non vedono di buon occhio che ai rifugiati venga data la priorità. La Giordania, che secondo i dati ufficiali ospita oggi circa 65 mila iracheni e ben 650 mila siriani, vieta per legge ai rifugiati ogni tipo di lavoro. Un divieto rimasto estremamente restrittivo per gli iracheni mentre ai siriani sono recentemente stati aperti alcuni settori non specializzati come i lavori di basso livello nelle fabbriche e nel turismo.
Un Ponte Per si scontra con queste problematiche anche negli altri due progetti che sta seguendo al momento nel Paese. “Stiamo seguendo l’allargamento di un laboratorio per la produzione di protesi, che prevede inoltre l’impiego delle persone che hanno subito amputazioni” – spiega Eleonora Biasi, country manager di Un Ponte Per – “e un altro progetto in collaborazione con l’associazione “Ourstep” che si dedica a persone affette da malattie mentali”. Soprattutto tra i rifugiati, in fuga dai traumi di guerra e violenze, quella delle malattie psichiatriche è una problematica enorme e spesso molto sottovalutata. “Vorremmo iniziare a dare ad alcune di queste persone la possibilità di gestire un bar annesso a un ospedale di Amman che si occupa di queste malattie” – prosegue Eleonora.
Nella pizzeria di Mar Yousefi quattro ragazzi stanno ora compiendo la loro formazione, ma sanno di non poter essere legalmente assunti. Majdi e gli altri sono quindi consapevoli che si tratta di una esperienza momentanea, e infatti nel lungo periodo progettano tutti di andarsene. “Ho fatto richiesta d’asilo in Australia” – spiega George – “Spero di poter usare là le cose che ho imparato grazie a questo progetto”. Anche gli altri sognano l’Australia, che in questi anni ha accolto molti rifugiati cristiani dal Medio Oriente, oppure l’Europa: un luogo, insomma, dove possano finalmente progettare una vita nel lungo termine. E se per adesso il loro futuro prossimo è ancora in bilico tra Giordania e qualche altro nuovo Paese lontano, c’è una cosa su cui tutti e quattro sembrano assolutamente sicuri: in Iraq non torneranno più.
@Ibn_Trovarelli




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