A un anno dalla liberazione, la città che i jihadisti immaginavano come embrione di uno Stato Islamico nel sud-est asiatico è ancora un cumulo di macerie. Ma Washington e Pechino si scontrano a suon di dollari per ottenere l’egemonia dell’area, ad alto valore strategico
Il 17 ottobre 2017, dopo quasi cinque mesi di duri combattimenti, oltre mille morti e 400mila sfollati, il presidente Rodrigo Duterte annunciava la liberazione di Marawi, la città nel sud delle Filippine assediata dai miliziani del Maute e Abu Sayyaf, due gruppi locali affiliati allo Stato Islamico che avevano l’obiettivo di creare il primo Califfato nero nel sud-est dell’Asia. Ma, ad un anno dalla fine del conflitto, Marawi continua ad essere una città completamente distrutta, con oltre 27mila famiglie che sono costrette a vivere ancora nei centri di emergenza allestiti dal governo. E, mentre la popolazione chiede a gran voce una ricostruzione veloce per tornare nelle proprie case, Washington e Pechino si stanno scontrando a suon di dollari per ottenere l’egemonia economica e militare dell’area.
Il 16 ottobre scorso gli Usa – storico alleato delle Filippine prima dell’avvento del nuovo presidente del Paese – hanno aumentato il loro finanziamento al Marawi Response Project, un programma di assistenza triennale gestito dall’Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale (Usaid) volto a sostenere le comunità colpite dalla guerra nelle Filippine meridionali. Il nuovo pacchetto di aiuti, annunciato dall’ambasciatore statunitense a Manila, Sung Kim, è di 25 milioni di dollari che, sommati a quelli precedenti, arrivano a quasi 60 milioni. A questi soldi va aggiunto il supporto d’intelligence e di tecnologia militare – droni di ultima generazione per il monitoraggio e l’attacco – che l’America ha offerto durante combattimenti e continua ancora ad offrire ora per monitorare i gruppi islamisti attivi in tutta l’isola di Mindanao. «Il governo degli Stati Uniti, condividendo la preoccupazione del governo filippino per i bisogni economici, sociali, sanitari e educativi della popolazione, ha deciso di aumentare i fondi», ha spiegato Kim.
Dall’altra parte la Cina non è rimasta a guardare. Nei mesi del conflitto, infatti, Pechino ha donato armi e munizioni per un valore di 7,1 milioni di dollari e, subito dopo la liberazione della città, altri 3 milioni per la costruzione di rifugi temporanei per i residenti sfollati. Inoltre Pechino è impegnata con le Filippine nell’ambito del Belt and Road Initiative (Bri), la strategia adottata dal governo cinese per lo sviluppo delle infrastrutture, che prevede un impegno di diversi miliardi di dollari.
Anche la ricostruzione di Marawi dovrebbe passare per le mani di Pechino. Non è ufficiale ma sembrerebbe che il governo di Manila, dopo aver cancellato un progetto di una società filippina nel giugno scorso, avrebbe dato l’enorme commessa alla Bangon Marawi Consortium (Bmc), una joint venture guidata dalla Cina. Tra le imprese – nove in tutto, cinque cinesi e quattro filippine – troviamo la China State Construction Engineering Corporation Limited, una società gestita direttamente dal governo di Pechino che, in termini di entrate, è la più grande azienda di costruzioni al mondo. Il contratto, che ha un valore di 17,22 miliardi di peso filippini, circa 328 milioni di dollari, però, non risulta ancora ufficialmente assegnato.
Il conflitto dello scorso anno a Marawi e l’incapacità delle truppe filippine a operare in contesti urbani avevano costretto Manila a chiedere aiuto ancora una volta agli Usa. Dopo forti momenti di tensione tra i due Paesi, infatti, i vertici dell’esercito – da sempre vicini agli americani – avrebbero scavalcato la volontà di proseguire una politica estera indipendente e lontana dai vecchi alleati intrapresa da Duterte per chiedere il supporto degli Stati Uniti.
Il raffreddamento delle relazioni tra le Filippine e gli Stati Uniti era iniziato nel giugno 2016, subito dopo il cambio di rotta verso la Cina voluto dal presidente all’inizio del suo mandato. Ma i finanziamenti che stanno arrivando da Washington potrebbero di nuovo cambiare le carte in tavola in questa parte del mondo dove sia la Cina che gli Usa hanno enormi interessi militari, economici e strategici.
@fabio_polese
A un anno dalla liberazione, la città che i jihadisti immaginavano come embrione di uno Stato Islamico nel sud-est asiatico è ancora un cumulo di macerie. Ma Washington e Pechino si scontrano a suon di dollari per ottenere l’egemonia dell’area, ad alto valore strategico
Il 17 ottobre 2017, dopo quasi cinque mesi di duri combattimenti, oltre mille morti e 400mila sfollati, il presidente Rodrigo Duterte annunciava la liberazione di Marawi, la città nel sud delle Filippine assediata dai miliziani del Maute e Abu Sayyaf, due gruppi locali affiliati allo Stato Islamico che avevano l’obiettivo di creare il primo Califfato nero nel sud-est dell’Asia. Ma, ad un anno dalla fine del conflitto, Marawi continua ad essere una città completamente distrutta, con oltre 27mila famiglie che sono costrette a vivere ancora nei centri di emergenza allestiti dal governo. E, mentre la popolazione chiede a gran voce una ricostruzione veloce per tornare nelle proprie case, Washington e Pechino si stanno scontrando a suon di dollari per ottenere l’egemonia economica e militare dell’area.