Bolsonaro pone condizioni inaccettabili al programma Mais Medicos. Così 8332 dottori cubani tornano a casa, causando un’emergenza nelle comunità più deboli del Brasile, oltre che nella casse di Cuba. E i medici ridiventano un’arma nel conflitto ideologico pro e contro il castrismo
Il governo brasiliano cerca disperatamente 8332 medici. È una call express: scade domenica 25 novembre. Chi è interessato ha dunque solo quattro giorni di tempo per rispondere, perché il 3 dicembre già potrebbe trovarsi in un villaggio sperduto dell’Amazzonia o in un angolo di favela.
A quella data saranno infatti tutti rientrati all’Avana i medici cubani impegnati in Brasile nel programma Mais Medicos. È la risposta dell’isola castrista al nuovo presidente Jair Bolsonaro, che si insedierà il 1 gennaio e che di Cuba è nemico giurato. L’annuncio è arrivato improvviso, ma non inaspettato, dal ministero della Salute. A quel punto, la diplomazia cubana ha aperto un fuoco di fila contro Bolsonaro, mentre gli organi di stampa hanno dispiegato in questi giorni una grande copertura sulla forza e il valore del sistema sanitario dell’isola che sarebbero sotto attacco dal nuovo potente avversario.
In Brasile il programma Mais Medicos è partito nel 2013, firmato dall’allora presidente Dilma Rousseff, dopo le denunce da parte delle organizzazioni sociali sulla mancanza di medici nel Paese, soprattutto nelle zone più marginali. Da qui l’accordo con Cuba, che ha fatto dell’export di servizi sanitari una delle voci più importanti per il bilancio dello Stato. Si calcola che nelle casse arrivino 11,5 miliardi di dollari l’anno dai servizi prestati in 67 Paesi, primo fra tutti il Venezuela. Dal Brasile l’introito si aggirerebbe sui 332 milioni, una cifra che ora lascia un buco non indifferente da coprire e che costringerà le autorità a cercare nuovi partner.
Il bilancio della missione nel gigante latinoamericano lo fornisce lo stesso ministero della Salute cubano.Poche volte come in questa occasione le istituzioni castriste sono state così generose di dati: “In questi cinque anni, circa 20 mila sanitari cubani hanno prestato 113 milioni di assistenze, in oltre 3600 municipi, 700 dei quali vedevano un medico per la prima volta e 1275 hanno tutt’ora a disposizione solo un dottore cubano”. In particolare sono stati coperti “luoghi di povertà estrema, nelle favelas di Rio de Janeiro, Sao Paulo, Salvador de Bahia, e nei 34 Distretti Speciali Indigeni nell’Amazzonia”. Attualmente sono impegnati 8332 cubani in 2885 municipi. Proprio quelli che ora mancheranno.
Il governo cubano cita lo studio elaborato dalle autorità sanitarie brasiliane e dalla Università federale di Minas Gerais, secondo cui “la presenza e l’assistenza dei medici cubani gode del 95% di approvazione tra le popolazioni locali”. Non solo: ricorda con enfasi che persino il presidente Michel Temer, il conservatore che ha defenestrato Dilma Rousseff, ha confermato il programma nel 2016, anno in cui i cubani sono riusciti a strappare anche un aumento del prezzo e migliori condizioni di vita nelle zone più remote. “Decisione ratificata dal Tribunale Supremo nel 2017”.
Cosa è successo allora di così grave da far precipitare la situazione? L’irruzione di Jair Bolsonaro ha scompaginato le carte. Il neo-presidente ha posto tre condizioni per mantenere il programma: che l’intero stipendio pattuito rimanga nelle tasche dei medici, che questi siano sottoposti a una valutazione del titolo professionale e che possano portare nel Paese i loro familiari per il tempo in cui prestano servizio. “Condizioni inaccettabili e umilianti”, hanno replicato dall’isola. L’ex-presidente Dilma Rousseff ha liquidato le esternazioni di Bolsonaro, in particolare la richiesta di valutare i titoli professionali, come «un gesto di disprezzo xenofobo e arrogante, anche perché i ministeri della Salute e dell’Educazione supervisionano il lavoro di tutti i medici».
In realtà, più che il valore e le capacità professionali, che ben pochi mettono in dubbio, a indispettire l’Avana sono altri due fattori, uno economico e uno politico. Lo stipendio innanzitutto: l’accordo prevede che dei 3300 dollari assegnati, il governo cubano ne trattenga il 75%, “tutti fondi – dicono – che vanno a sostenere lo Stato sociale nazionale. E a tutti viene garantito il posto di lavoro e lo stipendio a Cuba”. «Non dicono che questo non supera i 60 dollari», ricorda Reinaldo Escobar, direttore di 14ymedio, il giornale on-line. Ma il 25% è comunque allettante, anche se si finisce a lavorare in condizioni molte volte durissime: lo è soprattutto per la possibilità di trovare un aggancio professionale nel Paese ospitante. Una chance per poi emigrare individualmente. Anche per questo le autorità locali e quelle cubane cercano di mantenere piuttosto discreta la presenza degli operatori (sottraendoli soprattutto ai media stranieri) e una serie di misure cerca di rendere difficoltose eventuali diserzioni: «Quello che tanti non sanno è che Cuba continua a punire chi abbandona le sue missioni infliggendo otto anni senza poter tornare in patria», ha raccontato ad esempio al El Nuevo Heraldo Paloma Nora, una dottoressa che non è rientrata e si è rifugiata negli Usa.
E qui viene l’aspetto politico. Bolsonaro ha risposto alla repentina decisione del governo castrista con due tweet: in uno si rammarica, nell’altro offre asilo politico a tutti i cubani che vogliano fermarsi in Brasile. Perché poi è questo il punto che più duole all’Avana. Il ricordo va al Parole Program, emanato da George Bush nel 2006 che garantiva asilo in Usa ai medici e agli infermieri cubani che avessero abbandonato le loro attività all’estero. In dieci anni sono state 7117 le richieste ricevute, fino a quando l’amministrazione Obama ha cancellato il provvedimento considerandolo inusuale e inutile in una fase di revisione complessiva delle relazioni diplomatiche. Era la stagione del disgelo e Cuba ne aveva chiesto il ritiro come condizione per il dialogo. Quella che era stata considerata dall’Avana “una pratica riprovevole, che priva Cuba e altri paesi di vitali risorse umane”, ora torna a riaffacciarsi nella Brasilia di Bolsonaro.
«Il nuovo governo brasiliano non ha la minima autorità morale per mettere in dubbio Cuba in nessun ambito», ha tuonato il ministro degli Esteri Bruno Rodríguez Parrilla. I medici e gli infermieri cubani tornano ad essere così un terreno di battaglia. Naturalmente in quella battaglia scompaiono le vite e i desideri degli stessi medici e infermieri e delle comunità poverissime dove prestano servizio.
Ma ognuno degli attori in campo usa il valore simbolico degli operatori sanitari come arma. Bolsonaro agita il suo feticcio. E su quel terreno Cuba costruisce un nuovo racconto diplomatico, sfruttando l’occasione per stare sulla scena internazionale da protagonista. D’altra parte Bolsonaro è il nemico perfetto di cui la macchina governativa ha bisogno per oliare la narrazione di una Rivoluzione perennemente sotto assedio.
@fabiobozzato
Bolsonaro pone condizioni inaccettabili al programma Mais Medicos. Così 8332 dottori cubani tornano a casa, causando un’emergenza nelle comunità più deboli del Brasile, oltre che nella casse di Cuba. E i medici ridiventano un’arma nel conflitto ideologico pro e contro il castrismo