I casi di corruzione si moltiplicano, l’economia va male, gli indici di violenza salgono, ma per lo storico Laurentino Gomes questo è un periodo fecondo: «Dopo 30 anni di democrazia, ci interroghiamo su chi siamo. Le elezioni di ottobre sono le più importanti della nostra storia»
Giornalista e scrittore. Laurentino Gomes è uno degli intellettuali più famosi in Brasile, anche grazie al successo commerciale della trilogia sulla storia del Paese. È autore di 1808, sulla fuga della corte portoghese a Rio de Janeiro; 1822 sull’indipendenza e 1889, sulla proclamazione della Repubblica. A eastwest.eu spiega i risvolti storici di un Paese che vive un momento complicato e delicato. «Il Brasile che sogniamo arriverà, ma ci vuole tempo e dobbiamo saldare i conti col passato. Le elezioni di ottobre sono le più importanti della nostra storia».
Laurentino Gomes, il Brasile vive una fase storica molto peculiare. È un periodo di grandi incertezze, instabilità politica e poche idee chiare sul futuro. Che posto ha nella storia il periodo attuale?
Abbiamo sbattuto il naso contro la realtà, ma siamo ancora in uno scenario democratico. La gente ha paura che il Brasile sia finito, polverizzato. I casi di corruzione non sono mai stati così numerosi, l’economia va male, gli indici di violenza salgono, ma, se osserviamo il contesto storicamente, ci rendiamo conto che è un periodo ricco di discussioni sull’identità brasiliana. Per noi, trent’anni di democrazia ininterrotta sono una novità. Prima vivevamo di falsi miti. Pensavamo di essere un popolo cordiale, gentile, pacifico, onesto, ma ci siamo resi conto che ciò non corrisponde al vero. Siamo nudi davanti allo specchio a interrogarci sulla nostra essenza. Si pensava che l’arrivo della democrazia avrebbe trasformato il Paese con un colpo di magia, ma c’è ancora tanta strada da percorrere e troppi conti aperti col passato.
E poi ci sono dei problemi strutturali da affrontare.
Esatto. Mezzo secolo fa il Brasile aveva un’anima rurale. Le comunità e i legami erano diversi. Quella rete si è sfilacciata con un processo velocissimo di industrializzazione e urbanizzazione, cominciato negli anni Sessanta. È accaduto tutto di forma bruta e oggi ne paghiamo il prezzo. Le metropoli sono gigantesche, insalubri, pericolose, senza infrastrutture e non amministrabili. In passato, certe magagne erano camuffate con campagne della dittatura, ma oggi, grazie alla democrazia, i problemi sono evidenti a tutti.
Pensa che le difficoltà del Brasile siano imputabili a una democrazia ancora troppo acerba?
Dobbiamo osservare il problema dal punto di vista storico. I primi tre secoli della colonizzazione portoghese sono stati essenzialmente estrattivi, con le materie prime che venivano portate via. Nel frattempo, nessuno si è occupato di una popolazione povera, analfabeta, isolata e schiava. In Brasile, è arrivato il 40% degli schiavi del continente americano. Eravamo “drogati” di schiavitù. La nostra società si è formata così: dall’alto verso il basso. L’élite riteneva di non poter costruire uno Stato omogeneo da una massa di persone indigenti, analfabeti e schiavi. Siamo cresciuti con un modello autoritario. Nel 1956, quando sono nato, il tasso di analfabetismo era del 50%. Oggi è del 6-7%, c’è una nuova classe media e stiamo tentando la via democratica, ma è tutto molto recente. Ciò spiega, in parte, le nostalgie autoritarie di chi chiede il ritorno dei militari. È come se cercassimo qualcuno che risolvesse i problemi al posto nostro, senza doverci preoccupare di votare correttamente o di essere cittadini onesti. Il ritorno della dittatura è un’illusione, l’unica strada è quella del consenso democratico. Il Brasile che sogniamo arriverà, non bisogna perdere la speranza, ma dobbiamo calibrare le aspettative. Ci vorrà tempo, almeno 3-4 generazioni. Dobbiamo comportarci come adulti, non come bambini che hanno bisogno di un padre severo.
Com’è possibile che una parte della popolazione chieda il ritorno della dittatura, pur avendola vissuta in prima persona?
Alla vigilia del colpo di Stato del 1964, il Brasile viveva un periodo molto simile a quello attuale. C’erano grandi divergenze e la paura degli Stati Uniti che il Brasile potesse trasformarsi in un’enorme Cuba. Il risultato è stata una dittatura militare. Quando c’è una crisi strutturale, ricorriamo alla soluzione autoritaria. Esiste il mito del generale che arriva, mette ordine e va via. Ma le dittature non durano mai poco, tant’è che in Brasile è rimasta per 20 anni. Molte persone sono state arrestate, torturate, esiliate e private della libertà d’espressione.
È possibile che in Brasile torni la dittatura?
Non penso. Innanzitutto perché è cambiato il contesto internazionale. Non c’è più la guerra fredda, che fu fondamentale per l’arrivo del regime del ’64. Siamo integrati nella comunità internazionale, le istituzioni funzionano. Alcuni poteri, come il Congresso, appaiono fragili, ma esiste la speranza di rinnovarne la solidità con le elezioni di ottobre. Non vedo i presupposti per un golpe militare.
Lei ritiene che le presidenziali di ottobre saranno le più importanti della storia del Brasile?
Sì, è come se fossero la nostra prova di maturità. Non penso, però, che dalle urne uscirà una soluzione miracolosa e tantomeno avremo una rinascita. Vivremo un periodo simile al vostro post Mani Pulite: non smetteremo di essere corrotti, né lo saremo quanto in passato. Diminuirà la promiscuità fra pubblico e privato. Per la prima volta nella nostra storia, abbiamo in carcere un ex presidente della Repubblica (Lula, ndr), un ex presidente della Camera (Eduardo Cunha, ndr) e uno dei più grandi imprenditori del Paese (Marcelo Odebrecht, ndr), oltre a senatori, deputati e governatori. La democrazia non è mai un processo lineare, rapido ed efficiente. Negli Usa è arrivato Donald Trump dopo Barack Obama. I cambiamenti sono bruschi e dobbiamo adattarci.
Uno dei debiti storici del Brasile è quello con la schiavitù, un argomento al quale sta dedicando il suo ultimo libro.
I brasiliani sono in prevalenza afro-discendenti, mulatti o mestiços. Il Brasile è stato l’ultimo Paese dell’emisfero occidentale ad abolire il traffico di schiavi (1850) e l’ultimo a eliminare la schiavitù, 1888. Schiavi e afro-discendenti sono stati abbandonati alla propria sorte. Un grande abolizionista come Joaquim Nabuco (1849-1910) sosteneva che fosse inutile abolire la schiavitù senza educare le persone, integrandole nella società come cittadini con pieni diritti. Il Brasile non l’ha mai fatto e oggi ne paga il prezzo. La popolazione negra vive nelle periferie insalubri; è quella più esposta agli abusi della polizia; riceve stipendi minori rispetto a quella bianca e prevale numericamente fra i detenuti. Bisogna promuovere politiche pubbliche che integrino tutti: ecco perché sono favorevole alle quote negli organismi pubblici, nonostante si tratti di misure simboliche. È la prima volta che il Brasile, in un contesto democratico, sta cercando di correggere gli errori del passato.
@AlfredoSpalla
I casi di corruzione si moltiplicano, l’economia va male, gli indici di violenza salgono, ma per lo storico Laurentino Gomes questo è un periodo fecondo: «Dopo 30 anni di democrazia, ci interroghiamo su chi siamo. Le elezioni di ottobre sono le più importanti della nostra storia»