L’accordo è su tutto o niente, dicono a Bruxelles e Londra. Ma la lista dei nodi da sciogliere è lunga, a partire dal backstop sul regime al confine tra Irlanda e Irlanda del Nord. A dodici settimane dal vertice europeo per siglare l’accordo, le posizioni sono ancora nette e distanti
A Bruxelles la missione Brexit comincia a sembrare impossibile. Scandite dalle cicliche crisi di governo sul suolo britannico, le settimane passano e l’orologio corre senza nessuno slancio nei negoziati. Al 29 marzo 2019, giorno in cui scatterà la fatidica uscita del Regno dall’Unione, mancano ormai 8 mesi.
Appena dodici, invece, le settimane al vertice europeo di ottobre chiamato a siglare l’accordo. Un tempo decisamente molto stretto. «Siamo aperti a qualunque soluzione purché siano praticabili ed in tempo utile per il recesso. Siamo pronti ad accettare anche un ‘no deal’ e ci prepariamo a qualunque livello», ha avvertito a più riprese nelle ultime settimane il capo negoziatore dell’Ue, Michel Barnier. Che, lo ha detto, non negozierà sul White Paper pubblicato il 12 luglio dal governo britannico, nell’illusoria speranza di accelerare le trattative. «Vogliamo intensificare i negoziati», ha promesso al suo esordio il nuovo inviato britannico della Brexit, Dominic Raab, mentre i ministri europei gli elencavano quello che manca da qui al vertice di ottobre.
Il paracadute per l’Irlanda
La lista è lunga, e tra i nodi più urgenti da risolvere c’è il ‘backstop’, ovvero l’intesa temporanea che chiarisca il regime in vigore al confine tra Irlanda e Irlanda del Nord, allineandole almeno fino a una soluzione definitiva. Le proposte avanzate finora dall’Ue sono «impraticabili» e il governo britannico non le potrà accettare «mai», ha detto Theresa May a Belfast, sollecitando Bruxelles a farle «evolvere». Nel White Paper, la premier ha comunque promesso un «confine senza barriere», ma nel rispetto dell’integrità del mercato britannico e dei legami fra Irlanda del Nord e resto del Regno Unito.
«Ci sarà un accordo se ci sarà un backstop, non necessariamente il backstop proposto dalla Commissione, su cui possiamo lavorare e migliorare, ma serve ora un accordo operativo», ha replicato Barnier, sottolineando «l’obbligo di evitare una frontiera dura» e invitando «tutti a sdrammatizzare il problema dei controlli sul backstop».
Le relazioni future
Fuori, però, vuol dire fuori, è il diktat di Bruxelles. L’Ue non ha infatti alcuna intenzione di delegare «regole sulle dogane, la raccolta dell’Iva e delle accise a un Paese non membro che non è soggetto alle strutture della governance europea», ha scandito Barnier. L’unico denominatore comune al momento sembra essere quello di un accordo di libero scambio ambizioso. Il Libro bianco britannico parla allora di piani per espandere il modello dell’equivalenza, un sistema che l’Ue ha in vigore con altri Paesi (tra cui Usa e Singapore) per semplificare loro l’accesso all’Unione, ma Barnier ricorda che le decisioni sull’equivalenza sono prese unilateralmente da Bruxelles, e che quindi un sistema nel quale Ue e Londra discutono una serie di equivalenze non sarebbe possibile, perché toglierebbe all’Unione potere decisionale.
E se Whitehall tira la corda dalla sua parte verso garanzie su commercio, giustizia e servizi, Bruxelles vuole evitare vantaggi sleali, tra questi misure e pratiche di concorrenza, aiuti di Stato, fisco, ambiente e sociali. «L’Europa lavora duramente ad un accordo, ma non c’è certezza che sarà raggiunto. E anche se lo fosse, il Regno Unito non sarà più uno Stato membro», e quindi «ci si prepara a tutte le evenienze per assicurare che le istituzioni dell’Ue, gli Stati membri e i privati siano comunque pronti», scrive la Commissione europea.
«Non abbiamo bisogno di più tempo, ma di decisioni e chiarezza, dobbiamo dare certezze giuridiche», evidenzia Barnier, aggiungendo che «il Regno Unito vuole riprendere il controllo dei suoi soldi, leggi e confini» e l’Unione «rispetterà questa volontà», ma «anche l’Ue vuole mantenere il controllo del suo denaro, della legge e dei confini, ed il Regno Unito dovrebbe rispettare questo».
Un altro allarme, stavolta sul fronte economico, arriva dal Fondo monetario internazionale, preoccupato «perché il tempo passa e non vediamo chiarezza sui rapporti che ci saranno». Il Fondo avverte che dalla Brexit non ci saranno vincitori ed esamina due possibili scenari per fare i conti delle possibili perdite. Nello scenario più ottimista, i danni per l’economia europea sono limitati, e possono raggiungere lo 0,5%, anche se la Gran Bretagna perderebbe circa il 2% del Pil. Ma nello scenario peggiore, cioè senza accordo di libero scambio, il Pil Ue si contrarrebbe dell’1,5% entro 5-10 anni.
No deal
Prepararsi a tutto è l’unica via per la salvezza, pensa l’esecutivo Ue, che chiede ai governi di considerare anche «misure di contingenza» per problemi specifici come le dogane, nel caso di non accordo. Le misure d’emergenza potrebbero servire a livello nazionale, ad esempio, per gestire le lunghe code alle frontiere. Anche perché senza un’intesa, ricordano fonti Ue, «tecnicamente dal 30 marzo 2019 ci sarà bisogno di un visto per entrare nel Regno Unito», sebbene questo sia un problema che potrebbe essere risolto mettendo il Paese nella lista di quelli dove si può viaggiare senza visto.
Alle imprese si chiede poi di portare a termine entro marzo prossimo tutte le procedure per assicurare che non vi saranno interruzioni nei servizi e negli approvvigionamenti. E, per essere pronti davvero a tutto, la Commissione europea ha lanciato anche il nuovo sito Brexitpreparedness. Britannici avvisati, mezzi salvati.
@raelisewin
L’accordo è su tutto o niente, dicono a Bruxelles e Londra. Ma la lista dei nodi da sciogliere è lunga, a partire dal backstop sul regime al confine tra Irlanda e Irlanda del Nord. A dodici settimane dal vertice europeo per siglare l’accordo, le posizioni sono ancora nette e distanti