Negli ultimi tempi abbiamo assistito al funerale del liberalismo senza limiti, della globalizzazione senza se e senza ma. Si dice che le cinque fasi del lutto siano negazione, rabbia, contrattazione, depressione e accettazione. A tre settimane dall’elezione di Donald Trump e a sei mesi dal referendum della Brexit, anche gli inguaribili pro-global dovrebbero essere giunti ad accettare la vittoria del populismo. O forse no?
Alcuni parlamentari inglesi, prevalentemente liberal democratici e laburisti, si dicono pronti a votare contro l’attuazione dell’Articolo 50 del trattato di Lisbona, che darebbe inizio ai negoziati per l’uscita dall’unione Europea. Originariamente, la questione non sarebbe dovuta nemmeno passare per le mani del parlamento: solo il ricorso alla Corte Suprema portato avanti dall’attivista e filantropa Gina Miller, e supportato da tre studi legali di grido londinesi, ha costretto il Primo Ministro a riconoscere la prerogativa di voto delle Camere.
Intanto, negli USA, una petizione che implora ai membri Collegio Elettorale di ignorare la propria appartenenza di partito e eleggere Hillary Clinton il 19 Dicembre ha raggiunto più di 4 milioni di firme.
Se queste iniziative hanno ricevuto un notevole seguito, sono state altresì bollate di elitarismo e accusate di essere sostanzialmente anti-democratiche, di tentare disperatamente di surclassare il populismo e affermare la propria idea politica contro un’invocata ignoranza popolare. In effetti, sia il tentativo di fermare l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, sia la petizione al Congresso si appellano a falle nel sistema istituzionale ed elettorale per far prevalere la propria visione politica. Analizzando i due fenomeni da più vicino, tuttavia, possiamo notare le loro profonde differenze.
Il Collegio Elettorale americano è, effettivamente, un’istituzione profondamente antidemocratica. Istituito dai padri fondatori anche come soluzione estrema contro la demagogia, il collegio avrebbe dovuto garantire l’elezione di un personaggio adatto al ruolo, votando, se necessario, in maniera più intelligente e più informata del resto della popolazione. L’esistenza di una tale istituzione, dunque, è ormai profondamente anacronistica in una società, come la nostra, in cui i cittadini hanno ogni mezzo necessario per informarsi sui temi portanti della campagna presidenziale. Non solo. Il fatto che un candidato necessiti del 50% +1 dei voti in uno stato per aggiudicarsi la totalità degli elettori nazionali rende possibile il paradosso: può guadagnare un numero maggiore di Elettori, e dunque essere eletto Presidente, il candidato che effettivamente abbia ricevuto meno voti. Questo è esattamente ciò che è accaduto nell’ultima elezione, in cui Hillary Clinton ha perso la Casa Bianca, nonostante abbia vinto il voto popolare con uno scarto di più di due milioni di voti.
Paradossalmente, il 61% dei Repubblicani si dice a favore dell’abolizione del Collegio, e lo stesso Trump lo aveva definito un “disastro per la democrazia” dopo la seconda elezione di Obama nel 2012.
Il caso della contesa sulla Brexit, d’altro canto, non deriva da un’istituzione anacronistica, ma bensì della novità assoluta del problema affrontato. Se il Primo Ministro Theresa May aveva rivendicato il pieno potere di innescare l’Articolo 50, la sentenza della corte suprema la costringe a presentare la questione al Parlamento. I più speranzosi europeisti avevano suggerito che questa decisione avrebbe impedito la Brexit: la maggioranza dei parlamentari, infatti, si era detta contraria all’uscita del paese dall’Europa prima del referendum. Molti, però, giudicano improbabile che il parlamento si pronunci a sfavore di una decisione del popolo. Il risultato di questa battaglia legale, dunque, rallenterà certamente le trattative della Brexit, ma non la impedirà.
La situazione è simile oltreoceano: se l’elezione della Clinton grazie al contributo di una trentina di elettori “infedeli” è costituzionalmente possibile, con la massima probabilità nemmeno l’appello dei 4 milioni di Americani in favore della Clinton andrà ascoltato. Solo 24 stati hanno legiferato riguardo l’impossibilità degli elettori di votare contrariamente al proprio mandato, e nessuno degli 82 elettori infedeli è mai stato perseguito per le proprie azioni. Tuttavia, se anche il collegio si esprimesse a sorpresa a favore della Clinton, una sua elezioni riceverebbe obiezioni da parte del Presidente Obama, oltre ad essere probabilmente rifiutata dalla candidata stessa. Sia Obama che la Clinton, infatti, hanno più volte ricordato come l’elezione di Trump sia fondamentale a preservare la democrazia negli Stati Uniti.
Le forze liberali a favore dell’inclusione e del liberalismo paiono, dunque, destinate a fallire – e, purtroppo, per il meglio. Se c’è qualcosa che le battaglie (e le sconfitte) politiche di questo 2016 dovrebbero averci insegnato, è che non si può vincere con questi mezzi. Che il populismo non si può combattere nei tribunali o con escamotage politici, che fanno inveire all’elitarismo.
Alle prossime elezioni, qualsiasi esse siano, sarà più efficace affrontare il populismo, l’anti globalizzazione, la xenofobia, la paura, senza sottrarci al confronto, accusando queste opinioni di ignoranza. Alle prossime elezioni, affrontiamo l’astensionismo, affrontiamo il sentimento diffuso di disillusione nei confronti della politica. Affrontiamo. E forse non ci sarà bisogno di firmare petizioni e sfruttare falle nel sistema elettorale e istituzionali per far prevalere quel che riteniamo, magari con presunzione, essere il bene comune.
Si ringrazia Claudia Broggi per la collaborazione.
Negli ultimi tempi abbiamo assistito al funerale del liberalismo senza limiti, della globalizzazione senza se e senza ma. Si dice che le cinque fasi del lutto siano negazione, rabbia, contrattazione, depressione e accettazione. A tre settimane dall’elezione di Donald Trump e a sei mesi dal referendum della Brexit, anche gli inguaribili pro-global dovrebbero essere giunti ad accettare la vittoria del populismo. O forse no?