Nella resa dei conti in corso a Londra riemerge il peso cruciale di un’élite anacronistica. Il destino del Paese rischia di essere deciso dalle smisurate ambizioni di Johnson, pronto a sposare il populismo accattone per arrivare a Downing Street. Anche con l’aiuto di Trump
Londra – Nel caos in cui la politica britannica è precipitata dopo l’esito del referendum su Brexit, due anni fa che sembrano secoli, si rischia di perdere di vista il filo rosso di questo racconto. È un filo paradossale, patetico, meschino: il destino di un grande Paese, e a catena il futuro di un progetto ancora più grande come quello europeo, potrebbe essere definito dalle smisurate ambizioni personali di un gruppo di membri di un’élite anacronistica ai limiti dell’assurdo ma abbastanza cinica da sposare un populismo accattone. Uno schema molto di moda in questa parte di mondo ma che nel Regno Unito si presenta con caratteristiche emblematiche. E riemerge più evidente che mai, ora che la rivolta di una parte del partito conservatore contro il piano di uscita morbida dalla Ue annunciato da Theresa May ha innescato “la seconda battaglia della Brexit” ,
Lo abbiamo ripetuto varie volte, Brexit è la ripercussione globale, dagli effetti imprevedibili ma quasi certamente disastrosi, di un battito d’ali di farfalla fra compagni di corso in un salottino dell’Università di Oxford: David Cameron, Michael Gove, George Osborne e Boris Johnson.
Inutile tornare alle radici dell’euroscetticismo britannico dentro e fuori il Partito Conservatore che, su quella direttrice, si è definito a partire dall’era post Thatcher. Basti ricordare il vero movente politico che spinse David Cameron a concedere il referendum sull’uscita dall’Ue: mettere a tacere, con una vittoria, le ali del Partito Conservatore che sabotavano costantemente la sua azione di governo con il loro anti-europeismo.
Ci vorrebbe la penna di Shakespeare per raccontare i tradimenti personali e politici maturati nelle settimane di campagna referendaria, la più virulenta, becera, ignobile della storia contemporanea britannica. Segnata da un voltafaccia decisivo: quello di Boris Johnson che, da corrispondente del Telegraph a Bruxelles, negli anni novanta aveva costruito una carriera basata su articoli di fantasia, inaugurando il fortunato sotto-genere letterario del pezzo, sciatto nel metodo e colorito nel merito, di condanna al centralismo burocratico delle istituzioni europee.
Una caratteristica tipica di Johnson: mettere la sua penna brillante e i suoi contatti da uomo di mondo al servizio di una propaganda facile. Ai tempi, fu sbattuto fuori dal giornale per le sue invenzioni, il che non gli ha impedito, quasi subito, di rientrare dalla porta principale come editorialista pagato profumatamente e contemporaneamente di scalare i ranghi del Partito Conservatore.
Si racconta che Boris, da bambino, aspirasse a diventare ‘Il re del mondo”. In età adulta, la concretizzazione di questa fantasia abita a Downing Street e oggi, per ottenere il posto di primo ministro, l’unica via rimasta a Boris è quella di mettersi alla testa della destra radicale del proprio Partito.
Per questa ambizione, insieme al sodale Michael Gove – che fra l’altro era stato padrino del figlio di Cameron, Ivan, morto a sei anni dopo una lunga malattia – ha tradito l’amico di una vita David Cameron e si è prestato all’operazione Vote Leave, una campagna fondata solo e soltanto su tre menzogne. La prima, che la vittoria del Leave avrebbe liberato risorse per 350 milioni di sterline a settimana per il National Health Service. La seconda, che l’Unione avrebbe presto ammesso la Turchia fra i suoi membri e che milioni di turchi avrebbe invaso il Regno Unito. La terza, che i negoziati con l’Unione sarebbero stati i più semplici della storia.
Naturalmente, né Johnson né Gove si aspettavano che il Leave vincesse ed è per questo che hanno lasciato la patata bollente a Theresa May, volenterosa, persistente e capace di assorbire colpi fatali senza mollare la poltrona, in una dedizione sovrumana al potere o, forse, al dovere.
Sul perché la maggioranza degli elettori abbiano abboccato si potrebbero scrivere trattati a parte. Quello che conta è che, per sostenere questa linea di racconto anche dopo l’invocazione dell’articolo 50 da parte del governo May, Johnson e i suoi sostenitori nel partito – circa una sessantina – hanno scelto il sabotaggio del governo. Johnson è stato un ministro degli Esteri disastroso ma un avversario di governo formidabile. Ad ogni appuntamento cruciale del negoziato, ha attivato la sua vasta rete di contatti politici ed editoriali per minare gli annunci del suo primo ministro con editoriali fiume in cui contrapponeva la propria idea di Brexit a quella della May che nel corso dei mesi, di fronte all’evidenza dei fatti, era costretta ad ammorbidire la propria posizione negoziale, stretta fra la necessità economica di non allontanarsi troppo dallo status quo degli attuali rapporti con l’Europa e i bellicosi proclami di ritorno alla sovranità nazionale sbandierati dai Brexiters.
Ancora una volta proclami infarciti di pura propaganda e sogni tardo-imperialisti, con un pervicace rifiuto della realtà e degli appelli dei settori produttivi come quello degli industriali a cui Boris, poche settimane fa, ha risposto: «che vadano a farsi fottere».
Nel mondo dei populisti di lusso, Brexit sarà un successo. Del resto, a nessuno di loro manca una robusta rete di protezione.
Se due anni fa Boris aveva una chance di successo e godeva di stima nel partito e in Parlamento, oggi quel credito si è trasformato in sfiducia e derisione. È stato un imbarazzante ministro degli Esteri e poche settimane fa si è coperto di vergogna evitando di presentarsi in Parlamento al voto cruciale per l’approvazione della terza pista di Heathrow, dopo aver giurato per anni che si sarebbe opposto sdraiandosi davanti alle ruspe.
Questo lo rende ancora più pericoloso, ora che ha finalmente lasciato l’incarico, perché le sue ambizioni non sono sfiorite, si sono solo spostate in un terreno che pochi sanno maneggiare: il populismo puro. Da qui, ed è notizia di queste ore, l’alleanza con l’imperatore in carica dei populisti Donald Trump, che prima e durante la sua visita ufficiale nel Regno Unito, ha affossato la strategia negoziale di Theresa May, annunciando che la Soft Brexit farebbe saltare ogni possibile nuovo accordo di libero scambio con gli Usa. E per ritrovare la retta via, ha concesso il suo endorsement proprio a Johnson, più pronto si presume ad accettare quei consigli su come uscire dalla Ue, che il presidente fa sapere di aver dato a Theresa May, ma che lei non ha voluto seguire.
Operazione quasi certamente facilitata da Nigel Farage che in caso di Soft Brexit prepara il proprio rientro sulla scena politica. Non a caso, la character assassination della May avviene con un’intervista rilasciata al Sun, tabloid da 4 milioni di copie al giorno e uno dei motori della falsa propaganda pro-Brexit.
Ed ecco la quadratura del cerchio: il Sun è di proprietà di Rupert Murdoch che con la sua Fox News è uno dei più grandi alleati del presidente Trump e uno dei suoi pochi consiglieri.
È questa paradossale alleanza di improbabili populisti, tutti nati e cresciuti nel privilegio, tutti finiti in politica per ragioni di incontenibilità del proprio ego, a dominare la scena politica del Regno Unito. Dal punto di vista del consenso, naturalmente, il loro unico interesse è che si arrivi a un no deal, delle cui drammatiche conseguenza potranno dare la responsabilità all’Europa, ai migranti, ai traditori della sovranità popolare.
E il dramma è che non si vede, all’orizzonte, nessuno lucido e forte abbastanza per fermarli.
@permorgana
Nella resa dei conti in corso a Londra riemerge il peso cruciale di un’élite anacronistica. Il destino del Paese rischia di essere deciso dalle smisurate ambizioni di Johnson, pronto a sposare il populismo accattone per arrivare a Downing Street. Anche con l’aiuto di Trump