Nel 2006, la Siria fu colpita dalla prima grave crisi idrica degli ultimi anni. Tre anni dopo, la scarsità cronica di acqua aveva portato alla diminuzione di un mezzo del raccolto di grano e di due terzi di quello di orzo. Un milione di persone viveva nell’insicurezza alimentare nel 2011, anno in cui esplose la rivolta contro il regime.
In uno studio pubblicato dalla rivista Weather, Climate and Society nel 2014, l’esperto climatico Peter Gleick sosteneva che “i deterioramenti del clima e la scarsità d’acqua hanno giocato un ruolo diretto nell’acutizzarsi della crisi siriana”.
Almeno un milione e mezzo di siriani è migrato dalle aree rurali verso quelle urbane negli anni prima dello scoppio delle rivolte, trasformando città come Homs, Aleppo e la stessa Damasco focolai dell’insoddisfazione della popolazione.
Ban Ki Moon, segretario generale dell’ONU, sentenziò nel 2007 che il conflitto che aveva preso piede in Darfur, Sudan, fosse il primo causato dal riscaldamento globale. Anche il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha più volte corroborato la sua tesi secondo la quale i cambiamenti climatici possono influire sullo scoppiare di conflitti.
In Yemen, il riscaldamento globale ha esacerbato la scarsità d’acqua che da molti anni attanaglia il paese. Circa i due terzi della popolazione non hanno accesso all’acqua potabile e con l’innalzamento delle temperature e i livelli di precipitazioni ancora più bassi, questo numero non può che aumentare.
La scarsità di risorse idriche ha inoltre portato anche qui a una diminuzione dei raccolti, aggravando l’emergenza alimentare, che insieme agli scontri tra le diverse fazioni sul campo, ha reso ancora più insostenibile la condizione dei civili nel paese.
Negli ultimi anni, diversi studi hanno analizzato il fenomeno per poter riuscire a determinare se i cambiamenti climatici siano stati all’origine di alcune delle guerre che infuriano in Asia, Medio Oriente e Africa. Paesi come l’Iran, la Turchia e la Giordania e molti altri hanno sofferto più o meno le stesse emergenze climatiche di Siria, Yemen, Mali o Afghanistan senza però dare vita a guerre civili.
Però, l’emergenza climatica può essere anche un’occasione per costruire ponti tra diverse fazioni e realtà. Secondo il Dott. Vesselin Popovski, dirigente al Institute of Sustainability and Peace’s, non c’è un legame diretto tra il riscaldamento globale e lo scatenarsi delle guerre. “Quando le persone si trovano davanti a problematiche ambientali come la siccità, le inondazioni o la desertificazione, possono decide di combattere. Tuttavia, possono anche decidere di cooperare, come è successo dopo lo tsunami che ha colpito varie regioni dell’Asia nel 2004”.
Un esempio arriva dall’Africa saheliana. Gli scienziati hanno stimato che tra cinque anni, il Lago Ciad potrebbe non esistere più. Questa distesa d’acqua che bagna quattro paesi poteva vantare una portata di circa 25.000 km quadrati. Oggi, il bacino si è ridotto a 2.000.
Secondo i molti che sostengono che le crisi idriche e la desertificazione sono le cause che determineranno i futuri conflitti, quest’area è un polverone pronto a esplodere. Almeno venti milioni di persone traggono il loro sostentamento dalle attività legate al lago, numero che dovrebbe salire a trentacinque milioni nel 2020.
In più, la zona è già l’epicentro di un conflitto, quello contro l’organizzazione Boko Haram. Recenti studi condotti dall’United States Insitute of Peace, indicano la desertificazione e la scarsità d’acqua potabile come i maggiori problemi che la popolazione sta affrontando. Ma anche in questo caso, si esclude che il cambiamento climatico possa essere la causa determinante che ha spinto alunne persone a seguire la causa del gruppo jihadista. La mancanza di prospettive e lavoro e le accese dispute con un governo centrale visto come un invasore restano le ragioni che hanno spinto molti giovani ad arruolarsi.
Nonostante ciò, l’emergenza sul Lago Ciad ha anche dato dei riscontri per quanto riguarda la cooperazione internazionale e quella tra stati. Dal 1964 è attiva la Commissione per il Bacino del Lago Ciad (LCBC) che si è fatta promotrice di differenti progetti per la rivitalizzazione dell’area, collaborando negli anni con entità del calibro dell’ONU e dell’Unione Europea. La commissione è composta dai quattro Stati che il lago bagna, cioè Nigeria, Camerun, Ciad e Niger, più la Repubblica Centroafricana, la Libia e il Sudan.
Ovviamente, dato il progressivo deterioramento della situazione, l’organizzazione non si può dire esente da critiche. Nel 2002, a Yaoundé, in Camerun, la commissione stilò il suo progetto più ambizioso. Esso prevede il trasferimento di acqua dal fiume Oubangui nella Repubblica Centroafricana al lago. Sebbene siano passati diversi anni, il progetto non è ancora entrato in azione, complice la lentezza burocratica e la mancanza di strutture e coordinamento.
Seppur la crisi climatica sia un argomento all’ordine del giorno e forse uno dei problemi più gravi che l’umanità dovrà affrontare nei prossimi anni, essa non è ancora considerabile come la causa scatenante dei conflitti che insanguinano il mondo oggi. Rimane in questione se lo possa diventare. Di certo, la via della cooperazione tra stati e comunità sarà sicuramente per il miglioramento delle condizioni sarà sicuramente l’approccio da seguire ove possibile.
“Se vogliamo ridurre la violenza in questi paesi, dobbiamo lavorare su quattro fronti: ridurre la povertà, dotare le popolazioni della tecnologia per far fronte alle problematiche ambientali, ridurre la corruzione” ha dichiarato al Guardian Andrew Solow, scienziato al Woods Hole Oceanographic Institute, Massachusetts.