“Israele è una democrazia non molto diversa da quella italiana”. Decifrando per i lettori di East il nuovo capitolo della pagina politica che si scrive in queste settimane a Gerusalemme, lo scioglimento anticipato della Knesset, il Parlamento, e il ritorno alle urne previsto per il prossimo 17 marzo, Sergio Della Pergola ricorda spesso come per capire cosa sta succedendo nello Stato ebraico, la storia del Belpaese possa aiutare.

Uno dei massimi esperti di demografia ebraica a livello mondiale, Della Pergola vive in Israele dal 1966, ed è stato consigliere di diversi governi oltre che della municipalità di Gerusalemme. Instabilità, eccessiva frammentazione, un sistema elettorale proporzionale puro sono chiavi di lettura fondamentali. Senza dimenticare però la caratteristica più peculiare della politica nella terra del latte e del miele, che rendono ancora più complesso l’incastro del puzzle chiamato governo.
“Mi aspetto comunque un’affluenza alta, oltre il 60% – sottolinea il demografo – Penso che la gente percepisca la possibilità di un cambiamento. Oltre al fatto che i problemi del paese sono seri, e c’è bisogno di una classe dirigente”.
Professor Della Pergola, dopo meno di due anni dall’ultima volta Israele è nuovamente chiamata alle urne. Perché?
Esattamente per la stessa ragione per cui furono anticipate le elezioni la volta precedente: il governo di coalizione si è dimostrato incapace di far passare la legge di bilancio dello Stato. Come in Italia, il bilancio è il prodotto di un gigantesco compromesso. Dal primo ministro ci si aspetterebbe un ruolo da grande mediatore, la capacità di trovare soluzioni ponte tra i diversi partiti. Cosa che Benjamin Netanyahu ha dimostrato nuovamente di non essere in grado di fare.
Quali sono gli elementi significativi di questa nuova stagione elettorale?
In Israele il discorso politico si muove su tre grandi assi: il primo è quello della politica estera e militare, della difesa, della visione sulla pace; poi vi è quello, legato al rapporto tra Stato e religione, mentre l’ultimo è comune a tutti i paesi del mondo, la politica economica. Bisogna tenere a mente che rispetto a ciascun pilastro ogni partito si colloca più a destra o più a sinistra senza una tendenza univoca.
Oggi la situazione è molto frammentata: non soltanto non c’è un partito dominante, ma neppure una formazione che riesca a conquistare abbastanza seggi per la maggioranza all’interno della sua maggioranza, cioè 31 su 120, e questo rende il governo fragile e ricattabile. Il sistema elettorale israeliano è il più democratico e anacronistico del mondo: a collegio unico nazionale proporzionale puro a liste bloccate, con una soglia di sbarramento appena innalzata dal 2 al 3,25%. Una formula che se da un lato garantisce la massima rappresentanza delle idee, è tale da rendere il parlamento ingovernabile. Al momento di scioglierlo, Netanyahu ha creduto di convocare nuove elezioni in un momento a lui particolarmente favorevole.
Nel frattempo però stanno accadendo fatti nuovi. Innanzitutto si è creata una coalizione di centro-sinistra tra i laburisti e il partito centrista di Hatnua, che i sondaggi sembrano premiare. Poi c’è la nuova formazione fondata da un popolarissimo ex ministro di Netanyahu, Moshe Kalhon, famoso per aver abbassato i costi telefonici come ministro della Comunicazione. Ancora, il partito Shas, che si rivolge al pubblico molto osservante di origine sefardita, cioè proveniente dai paesi arabi, si è spaccato, e uno dei due tronconi potrebbe non superare lo sbarramento. La nuova soglia potrebbe pure spingere i tre partiti arabi esistenti a unificarsi nonostante le profonde differenze interne, permettendo loro di acquisire un peso rilevante come blocco unico. Infine va menzionata la figura di Naftali Bennett (leader del partito di destra nazional-religiosa Habayt Hayehudi, ndr) che con i risultati delle elezioni del 2013 si è proiettato come il vero astro nascente della politica israeliana insieme a Yair Lapid (guida della formazione centrista Yesh Atid ndr). Se Lapid oggi è però in netto calo, Bennett, con la sua piattaforma molto nazionalista, è in forte ascesa, ed il suo è pronosticato come il terzo partito.
La frammentazione in gruppi sembra essere una caratteristica non solo della politica, ma anche della società israeliana. Un fattore rilevante è tradizionalmente quello dell’origine geografica.
Nella sua storia, Israele è cresciuta soprattutto in conseguenza delle grandi ondate migratorie. Oggi però direi che la cosa fondamentale è che quasi i due terzi degli israeliani sono nati qui, considerando anche il fatto che il paese è molto giovane, con un tasso di natalità di tre figli per donna, caso unico tra i paesi sviluppati. Attualmente, circa la metà della popolazione è di origine ashkenazita, cioè proveniente dall’Europa centro-occidentale e l’altra metà sefardita, ma la distinzione sta sfumando. E questo ha comportato una progressiva crisi dei partiti etnici a favore di idee e programmi.
E per quanto riguarda l’osservanza religiosa?
Innanzitutto è essenziale sottolineare che Israele non è certo un paese diviso in due tra religiosi e laici, ma esiste invece un continuum tra un polo e il polo opposto. Ci sono settori molto osservanti (in ebraico “haredim”, “timorosi”) la cui rappresentanza parlamentare, grazie all’altissima natalità, è storicamente in aumento, pur rimanendo loro una minoranza fra il 10 e il 15%. Ci sono i religiosi-nazionali, un gruppo che accetta la modernità, è molto inserito nella società ma osserva tutti i dettami della religione ebraica, cui appartiene anche Bennett, che però nella sua politica punta molto pure sulla territorialità e sul voto dei residenti della West Bank. Poi ci sono una grande massa di persone che si possono definire moderatamente tradizionali e che sono dispersi in tutti i partiti, e infine il settore più numeroso, quello laico, che rappresenta intorno al 40 per cento dell’intera popolazione ebraica.
Qual è invece il ruolo del fattore territorio?
La territorialità è un fattore determinante se la consideriamo in termini di zone più o meno sviluppate: in Israele chi è più ricco vota a sinistra e chi più povero vota a destra. Tel Aviv è il centro di una zona urbana di quasi quattro milioni di persone, moderna, ad alto reddito e generalmente di sinistra. Nelle zone più periferiche del paese, del nord e del sud, dove le infrastrutture sono più carenti e i salari più bassi, c’è un orientamento al voto verso le forze più nazionali. Gerusalemme presenta entrambi gli aspetti ed è quindi molto polarizzata. Va comunque specificato che in qualunque centro sono rappresentati tutti i partiti. Forse l’unica eccezione è costituita dalla West Bank dove la presenza del centro-sinistra è quasi inesistente. I suoi abitanti non sono poi tantissimi, circa 350,000 su un totale di otto milioni, ma alla Knesset sono decisamente sovra-rappresentati.
In che modo gli eventi della scorsa estate e gli ultimi mesi di tensioni influenzano la stagione elettorale?
Subito dopo Margine Protettivo il sentimento prevalente era la soddisfazione di aver difeso bene il paese in una situazione difficile. Poi sono cominciate ad arrivare critiche da destra, con l’accusa di non aver fatto abbastanza. In tutto questo né Hamas, né l’autorità palestinese hanno aiutato, rimanendo entrambe ferme sulle loro posizioni in parte negazioniste e in parte velleitarie, facendo così il gioco di chi è contrario alla trattativa. Va detto chiaramente che anche le iniziative europee e dell’Onu legate al riconoscimento della Palestina rappresentano voti portati alla destra e contro il processo di pace. Se i mediatori non capiscono la profondità delle sensibilità in gioco, è molto difficile creare la fiducia reciproca.
A proposito di Europa, il nuovo alto rappresentante UE per la politica estera è un’italiana, Federica Mogherini.
I primi passi di Mogherini mi sono sembrati francamente sbagliati. Il fatto stesso di venire qui come primo viaggio da commissario ha mandato il segnale che questo è il problema principale del mondo, o quantomeno dell’Europa, idea che io non condivido assolutamente. Anche le sue dichiarazioni in quella circostanza non mi hanno convinto, non mi sembra abbia dato prova di adeguata consapevolezza.
Per chiudere tornando alle elezioni, in questa fase è possibile tracciare un pronostico?
È importante dire che non è chiaro chi sarà il prossimo primo ministro. Stando ai sondaggi potrebbe anche verificarsi uno scenario in cui il numero di parlamentari a favore del leader laburista Yitzhak Herzog supererebbe quelli per Netanyahu. Va detto però che la situazione è ancora molto fluida: sia in termini di partiti, sia di fattori esterni tutto può ancora accadere. Ma penso sia importante che il lettore capisca che Israele è comunque una democrazia non molto diversa da quella italiana, difetti compresi.
“Israele è una democrazia non molto diversa da quella italiana”. Decifrando per i lettori di East il nuovo capitolo della pagina politica che si scrive in queste settimane a Gerusalemme, lo scioglimento anticipato della Knesset, il Parlamento, e il ritorno alle urne previsto per il prossimo 17 marzo, Sergio Della Pergola ricorda spesso come per capire cosa sta succedendo nello Stato ebraico, la storia del Belpaese possa aiutare.