Non ci sono soluzioni semplici, né immediate, per rimediare a decenni di politica energetica dilettantesca, ma la direzione futura è tracciata: le fonti rinnovabili e l’idrogeno, oltre al nucleare
Lo scorso giugno, per la prima volta nella storia, l’Unione europea ha importato più gas liquefatto dagli Stati Uniti che gas via tubi dalla Russia. È una notizia enorme, considerato che nel 2021 Mosca era la maggiore – e nettamente – fornitrice del blocco, con una quota del 40% sul totale importato a livello comunitario. Il sorpasso americano è stato possibile principalmente per via dei pesanti tagli di Gazprom, la società gasifera controllata dal governo russo, ai flussi di combustibile verso il Vecchio continente: mentre scriviamo l’importante gasdotto Nord Stream 1 sta funzionando al 20% appena della sua capacità; i volumi passanti per l’Ucraina sono di oltre il 40% inferiori a quelli stabiliti dai contratti.
Questa minimizzazione delle forniture è una manovra intenzionale del Cremlino che, nascosta dietro la scusa dei problemi tecnici, ha l’obiettivo di alimentare prima la conflittualità sociale in Europa attraverso l’aumento dei prezzi dell’energia, e di indurre poi i Governi a moderare o cancellare le sanzioni per non perdere consensi. L’attenzione che i membri dell’Unione stanno dando all’approvvigionamento di gas e al riempimento degli stoccaggi non può però essere degradata a mero calcolo di convenienza elettorale. Per un cittadino, rinunciare al raffrescamento o al riscaldamento per via delle bollette salate può essere una scelta drammatica; lo stesso vale per un’impresa che valuta la chiusura a causa del costo elevato della materia energetica. È insomma una crisi vera, che non può essere risolta sventolando un ventaglio o, tra qualche mese, indossando un maglione in più. Non ci sono tuttavia soluzioni semplici che sistemino in un attimo decenni di politica energetica dilettantesca, che ha creato un rapporto di dipendenza estrema da un fornitore infido che lega politica e business e che aveva pure dato dimostrazione di aggressività. “La Germania ha commesso un errore strategico in passato, con la sua grande dipendenza dal gas russo e la fiducia che sarebbe sempre fluito in maniera costante e a buon mercato”, ha ammesso il Ministro dell’Economia tedesco Robert Habeck. “Ma non è solo un problema tedesco”, ha aggiunto. È vero.
Se l’annessione della Crimea ucraina alla Russia del 2014 non aveva alterato la sostanza dei contatti energetici tra Mosca e l’Unione – anzi: in Italia gli acquisti di gas aumentarono perfino, come denunciato da Mario Draghi –, con l’invasione su larga scala del Paese la risposta europea è stata radicale: entro il 2027 le importazioni di idrocarburi russi dovranno venire azzerate. Gli spazi di mercato per il Cremlino si stanno riducendo già adesso, non solo per i combustibili fossili ma anche per l’uranio, e l’Asia non potrà compensare del tutto e subito la perdita. Anche per l’Europa l’adattamento sarà indubbiamente difficile e costoso: ci sono venditori alternativi da trovare, accordi da negoziare, infrastrutture da costruire.
La riduzione dei consumi
La guerra sembra però aver innescato un cambio di mentalità a Bruxelles, portandola a scoprire l’importanza della sicurezza energetica (diversificazione dei fornitori, riserve strategiche) dopo anni di appiattimento sugli aspetti economici (ricerca del prezzo più conveniente, riforme di mercato). E il distacco dalla Russia, nonostante i danni ai Pil, potrà poi forse spingere in avanti il processo di integrazione europea. L’accordo per la riduzione del consumo di gas da agosto a marzo prossimo è debole perché prevede troppe deroghe, ma è comunque importante: la Commissione non è riuscita a imporsi sugli stati membri e la politica energetica – a differenza di quella monetaria, antimonopolistica, o agricola – rimane un tema di sovranità nazionale; ciononostante si sono fatti progressi in termini di coordinamento e di velocità d’azione (meno di una settimana di trattative).
Non c’è momento peggiore per razionare il gas dell’inverno, quando i termosifoni danno ristoro dal freddo e le luci si accendono presto perché fuori è buio. Ma non c’è scelta: se Gazprom “chiude i rubinetti”, come si dice, l’energia potrebbe scarseggiare e arrivare a prezzi ancora più insostenibili. L’Europa sta cercando di prepararsi al meglio a questa eventualità, ma molte cose sfuggono al suo controllo. Ad esempio, sta acquistando moltissimo gas liquefatto americano. Se però tra qualche mese il freddo in Asia sarà così pungente da far crescere la domanda di combustibile e di riflesso i prezzi, le metaniere si dirigeranno lì in Oriente e non qui nel Vecchio continente.
Nei mesi scorsi i governi nazionali e la Commissione hanno stretto accordi di compravendita con l’Algeria, il Qatar, il Congo, Israele e l’Egitto, l’Azerbaijan e gli Stati Uniti, tra gli altri. Ma non tutto il gas – liquefatto, di solito – arriverà subito: ci vorrà del tempo affinché i fornitori possano adeguare le capacità di produzione ed esportazione alla nuova domanda; i riceventi dovranno fare lo stesso, con nuovi impianti di importazione e di distribuzione. I rischi sono due. Il primo è che, nonostante le rassicurazioni, l’attenzione (inevitabile) al gas degeneri in distrazione dall’agenda climatica, dentro e fuori l’Unione. Il secondo è che, nonostante la diversificazione, l’Europa possa comunque ritrovarsi di nuovo in situazioni di vulnerabilità, ricattata da venditori inaffidabili. L’Algeria, ad esempio, ha già attuato ritorsioni contro la Spagna perché scontenta della sua politica estera in Nordafrica. E pure con l’Azerbaijan, considerati gli stretti rapporti con la Turchia, bisognerà usare molta accortezza.
Ben Cahill, senior fellow presso il CSIS, ha spiegato che “c’è una tensione tra il bisogno di gas sul breve termine e la transizione energetica dell’Europa sul più lungo termine”. Vuole dire che gli esportatori di gas preferiscono la sicurezza economica dei contratti a lunga scadenza. Ma Bruxelles non vuole impegnarsi per vent’anni perché conta di ridurre notevolmente i consumi del combustibile entro il 2030 o giù di lì, altrimenti il piano per la decarbonizzazione salta. Cahill fa notare come sia però “molto difficile competere per le forniture di energia sul mercato, a meno che non si sottoscriva un contratto a lungo termine, perché il mercato dell’energia è stretto”, c’è disequilibrio cioè tra offerta e domanda, “i prezzi sono elevati e gli acquirenti sono alla ricerca di gas”. L’inverno non è ancora arrivato e già dobbiamo preoccuparci di come superare quello del 2023-2024, in probabile assenza dei 155 miliardi di metri cubi che la Russia ci inviava in tempi normali.
Verso le fonti rinnovabili e l’idrogeno
La soluzione all’insicurezza energetica dell’Unione sta nelle fonti rinnovabili (più il nucleare, eventualmente) e nell’idrogeno: le prime permetteranno l’elettrificazione “pulita” dei consumi, mentre il secondo andrà a decarbonizzare le industrie e i trasporti pesanti. La coniugazione dei verbi al futuro suggerisce che si tratta però di soluzioni inapplicabili nell’immediato. Costruire parchi eolici e solari e connetterli alla rete non è un lavoro di qualche settimana, bisogna superare la burocrazia e spesso anche l’avversione delle comunità locali. Per l’idrogeno verde, poi, mancano entrambi gli ingredienti, ovvero abbondanza di elettricità rinnovabile e macchinari maturi che facciano scendere i costi di produzione.
La direzione è tracciata, comunque, e non si torna indietro. Anzi, a metà luglio la Commissione ha approvato un maxi-progetto sull’idrogeno da 5,4 miliardi di euro per accelerare lo sviluppo tecnologico e favorire l’utilizzo dell’elemento in tanti settori economici: si chiama Hy2Tech, si compone di quarantuno iniziative e vi hanno aderito aziende come Enel, Fincantieri, Ansaldo Energia, Alstom e Bosch. Nel frattempo, tuttavia, a tanti stati d’Europa non resta che andare a fare compere di gas o – molto peggio, per l’ambiente – affidarsi al carbone.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
Puoi acquistare la rivista in edicola o abbonarti.
Questa minimizzazione delle forniture è una manovra intenzionale del Cremlino che, nascosta dietro la scusa dei problemi tecnici, ha l’obiettivo di alimentare prima la conflittualità sociale in Europa attraverso l’aumento dei prezzi dell’energia, e di indurre poi i Governi a moderare o cancellare le sanzioni per non perdere consensi. L’attenzione che i membri dell’Unione stanno dando all’approvvigionamento di gas e al riempimento degli stoccaggi non può però essere degradata a mero calcolo di convenienza elettorale. Per un cittadino, rinunciare al raffrescamento o al riscaldamento per via delle bollette salate può essere una scelta drammatica; lo stesso vale per un’impresa che valuta la chiusura a causa del costo elevato della materia energetica. È insomma una crisi vera, che non può essere risolta sventolando un ventaglio o, tra qualche mese, indossando un maglione in più. Non ci sono tuttavia soluzioni semplici che sistemino in un attimo decenni di politica energetica dilettantesca, che ha creato un rapporto di dipendenza estrema da un fornitore infido che lega politica e business e che aveva pure dato dimostrazione di aggressività. “La Germania ha commesso un errore strategico in passato, con la sua grande dipendenza dal gas russo e la fiducia che sarebbe sempre fluito in maniera costante e a buon mercato”, ha ammesso il Ministro dell’Economia tedesco Robert Habeck. “Ma non è solo un problema tedesco”, ha aggiunto. È vero.