Il braccio di ferro diplomatico tra India e Usa si è concluso nella migliore delle tradizioni asiatiche: salvare la faccia.

La vice console generale indiana a New York, Devyani Khobragade, alcune settimane fa era stata arrestata e interrogata con l’accusa di frode e traffico di esseri umani. La reazione indiana, nell’ottica di mostrarsi come paese forte al quale il rispetto è dovuto, è stata aggressiva e rumorosa; il classico polverone per rassicurare l’elettorato interno circa la potenza indiana all’estero e ringhiare davanti a una pretesa di legalità da parte degli Usa reputata eccessiva (e forse sospetta) considerando il regime molto elastico in vigore in generale nel paese.
Ora la querelle, dopo varie azioni “reciproche” portate avanti da Delhi, sembra essere arrivata alle battute finali.
A Khobragade è stata garantita, secondo la legge Usa, l’immunità diplomatica.Ma le autorità americane hanno mantenuto la posizione, decidendo di non ritirare le accuse di illecito (che nel frattempo sono state mitigate a frode e falsa testimonianza) e chiedendo quindi all’India di rinunciare all’immunità rimettendosi al giudizio del sistema legale statunitense.
L’India, chiaramente, se n’è ben guardata e ha disposto che la diplomatica fosse trasferita dall’ufficio di New York a Delhi, sottraendola di fatto – legalmente – al procedimento legale americano. Gli Usa a questo punto non hanno potuto far altro che inserire Khobragade nella lista delle persone non desiderate su territorio americano: quando rientrerà a Delhi, la diplomatica non potrà più rientrare negli Usa.
L’India, in fin dei conti, ha ottenuto quello che realmente voleva: riportare a casa la propria diplomatica. Ma agli occhi della comunità internazionale si è dimostrata ancora una volta un “piccolo paese”, sorpreso nel torto che si sottrae al giudizio della legge. Una valutazione che in patria non emergerà, adombrata dal ritorno – si presume trionfante – della ex vice console vittima dell’arroganza yankee.
Ma evidentemente la soluzione salomonica non era abbastanza. Oggi infatti l’India, sempre giustificandosi col principio di reciprocità, ha chiesto ufficialmente all’ambasciata americana a Delhi di ritirare un diplomatico dello stesso grado di Khobragade in qualche modo – e su questo dettaglio mancano totalmente informazioni determinanti – coinvolto nel caso.
Un ulteriore schiaffo ai rapporti diplomatici sull’asse Washington – New Delhi del quale, al momento, si fatica davvero a capirne la necessità. Forse davvero è colpa della campagna elettorale per le elezioni imminenti; più probabilmente siamo di fronte all’ennesima disperata ricerca di autorevolezza operata, vista da qui, nella maniera più controproducente possibile.
Il braccio di ferro diplomatico tra India e Usa si è concluso nella migliore delle tradizioni asiatiche: salvare la faccia.