Il gruppo LafargeHolcim è accusato di aver finanziato l’Isis e altri gruppi per poter operare in Siria. E lo scandalo ora investe anche servizi segreti e ministero affari Esteri di Parigi, che avrebbero saputo tutto e appoggiato l’operato del colosso del cemento
Parigi – Terrorismo, servizi segreti, ingerenza del governo e lobby industriali: il copione sembra essere quello di un film di spionaggio, anche se questa volta il protagonista è uno dei più importanti gruppi industriali europei. Finito sotto inchiesta nell’ottobre del 2016 dopo alcune rivelazioni pubblicate da Le Monde e dal Canard Enchainé, il cementificio franco-svizzero LafargeHolcim è sospettato di aver finanziato l’Isis e altri gruppi terroristici tra il 2011 e il 2014 con una somma totale di 12,9 milioni di euro, necessari per mantenere la sua attività a Jalabiya, nel nord della Siria, a pochi chilometri da Raqqa.
Uno scandalo che negli ultimi giorni ha investito anche le istituzioni francesi, dopo che la scorsa settimana il quotidiano Libération ha diffuso la notizia secondo la quale il Ministero degli Affari esteri avrebbe intrattenuto a più riprese rapporti con i dirigenti nel periodo in cui Lafarge era in contatto con i gruppi terroristici.
Inaugurata al termine del 2010 con un investimento da 680 milioni di dollari, la filiale ha cominciato la produzione di cemento in concomitanza con lo scoppio della crisi siriana. Secondo diverse testimonianze, l’azienda avrebbe stretto accordi con i miliziani dello Stato Islamico nel periodo in cui avevano preso il controllo della zona per permettere alle merci e ai suoi dipendenti di passare i checkpoint presenti nei pressi del sito.
Le tangenti pagate ogni mese ammontavano a circa 20mila dollari e venivano consegnate attraverso la mediazione di Firas Tlass, uomo d’affari figlio dell’ex ministro della Difesa di Bashar al Assad. «Firas Tlass aveva una lista di una ventina di gruppi ai quali versava un contributo mensile», ha affermato Jacob Waerness, responsabile dei rischi tra il 2011 e il 2013, sottolineando che la quota veniva elargita solo a quei gruppi che si mostravano «cooperativi».
I testimoni hanno segnalato agli inquirenti alcuni episodi chiave, tra cui uno risalente al 2012, quando i jihadisti hanno sequestrato nove dipendenti alawiti dell’azienda. Secondo quanto affermato dai dirigenti, Lafarge avrebbe pagato un riscatto di 200mila euro per il rilascio.
L’azienda avrebbe inoltre acquistato dai terroristi materie prime necessarie per mandare avanti la produzione, come il petrolio. A differenza delle altre aziende occidentali presenti sul territorio, come Total o Air Liquid, Lafarge ha deciso di continuare la sua attività, infrangendo così l’embargo imposto dall’Unione europea, che vietava soprattutto l’acquisto de greggio in Siria.
Le indagini hanno portato i giudici ad iscrivere nel registro degli indagati sei dirigenti del gruppo con l’accusa di “finanziamento del terrorismo”, “violazione del regolamento europeo” e “pericolo per la vita altrui”. Tra questi, figurano l’ex presidente, Bruno Lafont, insieme a Bruno Pescheux, direttore delle attività in Siria tra il 2008 e il 2014, e il suo successore, Frédéric Jolibis.
In un simile scenario, la posizione della diplomazia francese sembra essere poco chiara. Le dichiarazioni dei responsabili di Lafarge non coincidono con quelle rilasciate dal Quai d’Orsay, che si è sempre dichiarato all’oscuro della vicenda, negando di essere a conoscenza dei rapporti tra l‘azienda e i terroristi. Christian Herrault, ex direttore generale finito anche lui sotto inchiesta, ha dichiarato che Eric Chevallier, in quel periodo ambasciatore francese in Siria, «era al corrente del racket» e sollecitava i vertici della fabbrica a rimanere sul posto, sicuro che le tensioni si sarebbero presto affievolite. «Ogni sei mesi andavamo al Quai d’Orsay, che ci incitava a restare», ha rivelato Herrault. Dal canto suo, Chevallier ha affermato a più riprese di non ricordarsi degli incontri avvenuti con i responsabili locali di Lafarge, sottolineando che «non resta nessuna traccia di queste riunioni».
I dirigenti hanno inoltre evocato un interessamento alle loro attività da parte dei servizi segreti, con cui sarebbero entrati in contatto attraverso il responsabile per la sicurezza di Lafarge, Jean-Claude Veillard, anche lui indagato. Una figura chiave, con un passato nella marina e nelle forze speciali, che avrebbe intrattenuto relazioni con alcuni suoi vecchi contatti nel settore dell’intelligence.
Il colpo di scena, però, è arrivato la scorsa settimana, dopo che Libération ha diffuso alcuni passaggi di una lettera inviata ai giudici lo scorso 15 gennaio da Chevallier. Il diplomatico ha riconosciuto per la prima volta che «c’è stato un colloquio nell’estate del 2012” con i rappresentanti della filiale.
“Pensavo che i responsabili di Lafarge (…) si sbagliassero, tanto più che le frasi che mi sono state attribuite non corrispondono a quello che avrei potuto dire”, scrive l’ambasciatore, attualmente in missione nel Qatar. Tuttavia, Chevallier ha negato di aver consigliato ai suoi interlocutori di restare in Siria.
Un vero e proprio voltafaccia, che ha cambiato le carte in tavola costringendo gli inquirenti a dover considerare seriamente un possibile coinvolgimento da parte del ministero. Per quale motivo la Francia avrebbe fatto pressioni affinché Lafarge non lasciasse la Siria?
Secondo Le Monde, “l’ossessione” della società in quel periodo era quella di resistere alle difficoltà per “conservare un vantaggio strategico nella prospettiva di ricostruzione del Paese”. In altre parole, il gruppo voleva mantenere un avamposto nella regione, sicuro che al termine del conflitto avrebbe goduto di una posizione privilegiata rispetto ai suoi concorrenti.
In questo quadro risulta evidente che il cementificio diventava per Parigi un cavallo di Troia ideale da utilizzare dopo la caduta del regime di Assad. Una strategia che spiegherebbe anche l’interessamento da parte dei servizi segreti, che disponevano così di una base nel cuore del conflitto siriano, utile per raccogliere informazioni sulla situazione della regione. Il piano non ha avuto gli effetti sperati, visto che nel settembre del 2014 la fabbrica è caduta definitivamente nelle mani dello Stato islamico.
Il caso Lafarge ha gettato la Francia nel più totale imbarazzo, costringendo il Quai d’Orsay a tornare sulle sue posizioni per giustificare goffamente l’ambiguità de suo atteggiamento. Uno scandalo che nei prossimi mesi potrebbe portare alla luce altre scomode indiscrezioni per Parigi.
Il gruppo LafargeHolcim è accusato di aver finanziato l’Isis e altri gruppi per poter operare in Siria. E lo scandalo ora investe anche servizi segreti e ministero affari Esteri di Parigi, che avrebbero saputo tutto e appoggiato l’operato del colosso del cemento