La scelta della data per il referendum per una Catalogna indipendente – il 9 novembre 2014 – campeggia sui titoli di tutti i giornali da giovedì scorso: su quelli catalani associata a “un massiccio sostegno della popolazione”, su quelli nazionali con le dichiarazioni del governo di Madrid sull’impossibilità costituzionale di celebrarlo.

La strada è in ogni caso lunga, anche se il primo passo è fatto. In parte lo ha sbloccato a settembre il successo della catena umana che si è snodata lungo i 400 km del “confine” tra la regione più ricca della Spagna e il resto del Paese. In parte è una risposta a una popolazione catalana che ha le idee molto chiare.
“Saremmo il 4° paese di Europa per Pil pro capite”, mi dice Jordi Prat, che si occupa di istallazioni elettriche. “La Catalogna non ha più risorse per i servizi, per le scuole, e Madrid non ha voluto acconsentire a un Patto fiscale, come quello con i Paesi Baschi. I partiti del governo catalano non lo avevano indetto finora perché, se la consulta non trionfasse, i dirigenti se ne dovrebbero andare tutti a casa e quindi avevano paura”, aggiunge Jordi.
Il presidente della Generalitat (l’amministrazione della Catalogna), Artur Mas di Convergenza e Unione (Ciu), un partito di centrodestra catalanista, ha ora guadagnato un anno per negoziare con Madrid, è riuscito a tenere unita una “grande” coalizione di governo che va dalla Sinistra repubblicana (Erc) ai Verdi (Icv) a un gruppo di democrazia partecipativa (Cup), e si garantisce il sostegno dell’Erc per l’approvazione del bilancio 2014. La quadratura del cerchio, si ripete a Barcellona.
Da quando la dittatura franchista tolse alla Catalogna l’autonomia vietandone la lingua e la cultura, i partiti di sinistra catalani sono stati tendenzialmente tutti indipendentisti e quelli conservatori “spagnolisti”. I due principali partiti nazionali, il Partito popolare del premier Mariano Rajoy e il Partito socialista si trovano ora in una situazione molto scomoda. Tra la direzione centrale dello Psoe e quella catalana tira un vento gelido, perché, sostiene una parte di quest’ultima, non associarsi alla richiesta del referendum potrebbe essere letale, dopo il dissanguamento negli ultimi appuntamenti elettorali regionali.
“Vuoi che la Catalogna diventi uno Stato?” è la prima domanda sulla quale dovrebbero pronunciarsi i catalani l’anno prossimo, e “Vuoi che questo Stato sia indipendente?” è la seconda. Gli osservatori le hanno considerate inizialmente contorte, ma a una riflessione più attenta, si capisce che hanno lo scopo di portare al mulino indipendentista parti del Pp e dello Psoe, ovvero, quei catalani che non vogliono più dare a Madrid 17 miliardi di tasse l’anno e che ritengono che con un Pil pro capite di 27.430 euro – superiore alla media della Ue 27 (€ 25.200) e a quello spagnolo (€ 23.100) – la loro regione uscirebbe molto prima dalla crisi. L’indipendenza tocca invece altre corde rispetto alle quali i catalani si sentono ”umiliati”, quali certi imposizioni amministrative di Madrid, la strategia per il porto e per l’aeroporto, la lingua e la cultura, e non ultimo, per qualcuno, la possibilità di avere la propria squadra di calcio ai Mondiali.
“La data scelta, il 9 novembre, non è casuale”, mi dice Ed Hugh, un economista profondo conoscitore della Catalogna. “È il 25° anniversario della caduta del Muro di Berlino, è sarà la culminazione delle celebrazioni per il tricentenario della storia moderna della Catalogna. All’annuncio le persone erano eccitate ed entusiaste. Non vedevo tante facce felici da tanto”.
“Il referendum non si farà. Va contro la Costituzione”, ha tagliato corto il premier Rajoy raffreddando gli animi. Inoltre, non è detto che abbia successo. Secondo un sondaggio commissionato dal giornale nazionale El Mundo, contrario allo smembramento della Spagna, a volere la Catalogna Stato non sarebbe più del 43% dei catalani, e solo un 35,2% lo vorrebbe indipendente.
Tuttavia, per la Ue si tratta di una circostanza totalmente nuova con numerose implicazioni fondamentali, normative ed economiche. Uno Stato indipendente della Catalunya resterebbe fuori dalla Ue, come ha chiarito tempestivamente lo spagnolo Joaquin Almunia, vicepresidente della Commissione Europea, parlando al Wall Street Journal, mentre i catalani sono invece convinti della fattibilità di un successivo processo di adesione (se la Spagna non si opporrà). In fondo, segnalano molti, alla fine saranno tutti Stati dell’Unione.
Il rischio è però quello di stare aprendo una scatola di Pandora: anche in altre regioni dell’Europa si parla di indipendenza – Fiandre, Scozia, Bavaria, Scania, per non parlare del resto della Spagna. Il vivace dibattito che sta nascendo a livello europeo non può che essere benvenuto.
La scelta della data per il referendum per una Catalogna indipendente – il 9 novembre 2014 – campeggia sui titoli di tutti i giornali da giovedì scorso: su quelli catalani associata a “un massiccio sostegno della popolazione”, su quelli nazionali con le dichiarazioni del governo di Madrid sull’impossibilità costituzionale di celebrarlo.