Nel primo anniversario del referendum, i separatisti chiedono al presidente catalano di far rispettare il risultato. Ma la società è spaccata. Malgrado la linea più morbida di Sanchez, la crisi non è stata disinnescata. E rischia di esplodere quando arriverà la sentenza per i capi “ribelli”
Barcellona – A distanza di un anno esatto dalla celebrazione del referendum sull’indipendenza, la Catalogna separatista è scesa nuovamente in piazza per chiedere a gran voce la costituzione della Repubblica catalana.
La Piattaforma 1 Ottobre, che racchiude le principali associazioni indipendentiste della regione, tra cui Ómnium Cultural e l’Assemblea nazionale catalana (Anc), si è prodigata nella preparazione di una lunga serie di eventi pubblici finalizzati a commemorare il primo anniversario del referendum separatista.
In migliaia hanno risposto all’appello, occupando piazze e strade di diverse località della Catalogna per consegnare idealmente a Quim Torra, il presidente del Governo catalano, il mandato a dare esecuzione al risultato referendario. La consulta popolare tenutasi lo scorso anno aveva infatti visto la vittoria del “Sì” all’indipendenza, opzione votata dal 90% degli oltre 2 milioni di persone accorsi alle urne nonostante il divieto di Madrid, che aveva ripetutamente bollato come illegale il referendum.
La giornata di commemorazione del referendum ha fotografato ancora una volta la profonda spaccatura all’interno della società civile catalana, un conflitto ormai consolidato di cui è difficile ipotizzare una soluzione a stretto giro. Una divisione certificata dagli ultimi dati forniti dal Centro di Studi d’Opinione del Governo catalano, che evidenziano come il 46,1% della popolazione sia favorevole all’indipendenza, contrapposto al 44,9% di matrice unionista.
Ad esacerbare gli animi degli indipendentisti contribuisce la causa aperta contro gli esponenti dell’ex Governo regionale capitanato da Carles Puigdemont, sei dei quali – tra cui l’ex vicepresidente Junqueras – sono sottoposti da mesi al regime di carcere preventivo insieme all’ex presidente del Parlamento regionale, Carme Forcadell, ed ai presidenti delle due principali associazioni indipendentiste, Jordi Cuixart e Jordi Sánchez – quest’ultimo formalmente dimessosi dalla carica di presidente della Anc -.
I separatisti li considerano a tutti effetti dei prigionieri politici, ingiustamente accusati del reato di ribellione, la cui sorte, insieme a quella degli altri leader secessionisti auto-esiliatisi fuori dalla Catalogna, in primis Puigdemont, funge da collante tra le fila del movimento indipendentista. Gli ultimi mesi hanno infatti rivelato profonde tensioni tra l’ala radicale del separatismo catalano, rappresentata dalla Candidatura D’Unidad Popular (Cup) e dai Comitati di difesa della Repubblica (Cdr), e l’establishment indipendentista del duopolio Esquerra Republicana (Erc) e PDeCAT, partiti che a loro volta si contendono la leadership dell’indipendentismo.
Alle pressioni dei radicali della Cup, il neo presidente catalano Torra risponde puntualmente di voler garantire il pieno rispetto del mandato referendario, impegnato però in una complessa partita a scacchi con Madrid, sempre pronta a far trapelare la possibile riattivazione dell’art.155 della Costituzione qualora la sfida indipendentista della Catalogna si riappropri dei toni e dei modi utilizzati da Puigdemont.
L’avvento di Pedro Sánchez alla Moncloa, un’investitura garantita anche dai voti decisivi dei separatisti catalani per sfiduciare l’ex premier Mariano Rajoy, ha portato una ventata di serenità nelle relazioni bilaterali tra il Governo centrale e la Generalitat. Esemplificativa in tal senso è stata la decisione di permettere il trasferimento in carceri catalane dei leader indipendentisti sotto processo, risparmiando così ai rispettivi amici e familiari la lunga trasferta verso i penitenziari madrileni di Estremera e Soto del Real.
Nonostante una linea più morbida ed aperta al dialogo rispetto al suo predecessore, Sánchez non ha concesso alcuna apertura alle aspirazioni separatiste del Governo presieduto da Quim Torra, dicendosi pronto esclusivamente a concedere un referendum per votare un nuovo statuto di autonomia della Catalogna. Una situazione quindi di assoluto impasse, che rischia di degenerare quando il Tribunale Supremo emetterà la sentenza di primo grado nei confronti dei politici catalani attualmente imputati – l’accusa principale riguarda il reato di ribellione, contestato solo ad alcuni dei processati, in aggiunta alle accuse di sedizione e malversazione di fondi -.
Inizialmente ipotizzata dai media spagnoli tra la fine dell’anno in corso ed i primi mesi del 2019, la sentenza della giustizia spagnola potrebbe invece arrivare la prossima estate, una volta concluse le elezioni europee e quelle municipali. In particolare, la sfida per la poltrona di sindaco di Barcellona potrebbe rivelarsi decisiva per scompaginare i rapporti di forza all’interno della classe politica catalana, dove ha fatto ufficialmente il proprio ingresso Manuel Valls, l’ex premier francese che punta a diventare primo cittadino del capoluogo regionale a capo di una lista civica sostenuta da Ciudadanos.
L’ex uomo forte della presidenza Hollande, finito quasi ai margini della politica transalpina dopo la sconfitta alle primarie socialiste del 2017, tenta infatti di riciclarsi nella città in cui è nato, promettendo la stessa ricetta utilizzata durante la sua tappa da primo ministro per sconfiggere Ada Colau, il sindaco uscente. Seppur distante da posizioni apertamente indipendentiste, quest’ultima ha sempre appoggiato la battaglia dei separatisti per chiedere la scarcerazione dei politici catalani, criticando l’operato del Governo Rajoy nella gestione del referendum.
Una vittoria di Valls, europeista e sostenitore dell’unità nazionale della Spagna, significherebbe un duro colpo per gli indipendentisti, che si troverebbero un nemico dichiarato alla guida della principale città della Catalogna.
@MarioMagaro
Nel primo anniversario del referendum, i separatisti chiedono al presidente catalano di far rispettare il risultato. Ma la società è spaccata. Malgrado la linea più morbida di Sanchez, la crisi non è stata disinnescata. E rischia di esplodere quando arriverà la sentenza per i capi “ribelli”