Da quando mi occupo del caso dei due marò in India noto una certa propensione della stampa italiana nel scovare casi reputati “simili” alla vicenda dei due fucilieri di marina. Con risultati un po’ melliflui e, spesso, tragicomici.

L’ultimo in ordinde di tempo è quello della nave da carico Seaman Guard Ohio della compagnia americana AdvanFort specializzata in servizio antipirateria. Alcuni giorni fa le autorità costiere del Tamil Nadu hanno bloccato la nave (battente bandiera della Sierra Leone) ed equipaggio di 35 persone poiché viaggavano con un carico “sospetto”: 35 armi da fuoco e oltre 5.600 munizioni per le quali, da quanto si apprende dalla stampa indiana, l’equipaggio non ha ancora prodotto la documentazione ufficiale. Inoltre l’imbarcazione si sarebbe rifornita illegalmente, su suolo indiano, di 1.500 litri di gasolio.
Sempre secondo la stampa indiana, la nave americana sarebbe entrata all’interno delle acque territoriali indiane per “fuggire dal ciclone Phailin”, eventualità contestata dalle autorità indiane che invece hanno rilevato l’ultimo posizionamento della nave ben distante dal ciclone. Insomma, ci sono delle indagini in corso e la AdvanFort, dagli Usa, sostiene che tutto sia in regola e che presto – “tra oggi e domani” – dei rappresentanti della compagnia raggiungeranno l’India per seguire le indagini sul posto, invitati dalle autorità locali.
L’interessamento della stampa italiana ovviamente deriva da presunte similitudini nel caso – nave straniera, acque indiane, equipaggio straniero, arresto delle autorità – facendo leva sul’arroganza dell’India che arresta apparanetmente senza motivo natanti stranieri nelle proprie acque, una sorta di bullismo terzomondista. Il caso dell’Enrica Lexie, ovviamente, è molto più complesso e grave, comprendendo la morte di due pescatori e il ricorso alla forza letale da parte di sottufficiali della Marina in quel momento “affittati” dall’armatore Fratelli D’Amato per un servizio antipirateria privato. Ripeto, privato! Chi dice che i marò erano impegnati in una missione Nato antipirateria è pregato di indicarne nome e termini che comprendano sia il permesso di pattugliare al largo delle coste indiane sia di farlo a bordo di una petroliera civile.
La gara alle similitudini semiserie è feroce, in un continuo gioco di specchi che mostra al pubblico quello che fa comodo mostrare, evitando approfondimenti seri che chiariscano una volta per tutte l’unicità e la gravità del caso che coinvolge i nostri sottufficiali. Non solo Latorre e Girone, ma tutti i sei a bordo della Lexie nel febbraio 2012, siccome dalle indagini emerge che i fucili che hanno sparato quel 15 febbraio non avevano la matricola dei due fucilieri pugliesi, ma di altri due membri del Nucleo militare di protezione.
Personalmente, il campione di illusionismo giornalistico nel caso dei due marò rimane Gianni Riotta, che mesi fa sulla Stampa si era lanciato in un’invettiva per assurdo contro la pochezza dell’Italia nella diplomazia internazionale, tirando in ballo un esempio di incidente “simile” che aveva coinvolto un’imbarcazione americana. Un pezzo pregevole del quale mi ero occupato durante la redazione del saggio “I due marò. Tutto quello che non vi hanno detto”, del quale ripropongo qui sotto un estratto.
Altro esempio, ancora più grave, è rappresentato da Gianni Riotta su LaStampa. Riotta, già celebre nell’ambiente degli inviati in Cina per ricostruzioni da brividi del complotto politico più grave nella Repubblica popolare dal 1989 ad oggi – il caso Bo Xilai – nel suo editoriale “Le ragioni di un flop diplomatico” si lancia nella trita e ritrita “reductio ad americam”, stratagemma retorico al quale l’ex studente della Columbia University è molto caro:
Lo scorso 17 luglio la nave della Marina Usa Rappahannock, appena al largo dello Stretto di Hormuz, è stata avvicinata da pescherecci indiani.
In una copia esatta dell’incidente che ha portato al tormentato caso dei sottufficiali italiani Latorre e Girone. Dopo avere dato gli stessi segnali di ricognizione dei marò, i militari americani hanno aperto il fuoco uccidendo un pescatore indiano e ferendone gravemente altri tre.
Il governo del premier indiano Singh ha espresso “profonda tristezza”, il governo americano ha inviato “condoglianze”. Nessun graduato americano è stato fermato, interrogato, tratto in arresto o processato in India. L’ambasciatore di Washington non è stato fermato o ha visto negata l’immunità internazionale diplomatica. Washington e Nuova Delhi sanno che le acque dell’Oceano Indiano sono zona ad altissima tensione, tra pirati, terroristi, crescente influenza di Pechino. La vicenda – triste e tragica – è stata chiusa subito, tra due nazioni amiche. Il caso della Rappahannock è, ripetiamo, identico nella meccanica a quello in cui sono rimasti uccisi i pescatori Ajesh Binki e Gelastine: ma tra India e Stati Uniti niente ombre.
Ecco, il caso Rappahannock, nonostante Riotta dica il contrario, col caso Enrica Lexie non c’entra assolutamente nulla.
Lo stretto di Hormuz si trova tra Dubai e la costa dell’Iran, a migliaia di chilometri dall’India, e infatti di pescherecci indiani – navi da pesca battenti bandiera indiana – in quella zona non se ne sono mai visti (come del resto davanti a Posillipo e nei pressi dello stretto di Panama, per dire). Perché non ci possono proprio andare e, anche volendo, non ci arriverebbero partendo dall’India.
I pescatori indiani, emigrati a Dubai per lavoro, non stavano navigando su un peschereccio, ma su uno skiff, le barche veloci usate tradizionalmente dai pirati, che, in quella zona, a differenza che nelle acque del Kerala, sono molto attivi. E lo skiff era pure senza bandiera.
La Rappahannock, che è una nave da guerra in missione per pattugliare le acque nei pressi della penisola araba – non una petroliera civile di un armatore italiano – ha sì sparato contro gli indiani, ma immediatamente ha fatto rapporto alle autorità e confermato di aver sparato, ucciso e di “essersi sbagliati”. Cosa che spesso l’esercito americano purtroppo fa, non solo al largo di Dubai.
I marò, invece, hanno sparato e ucciso, per tre ore non hanno detto niente a nessuno, richiamati in porto a Kochi e arrestati hanno prima sostenuto di non essere stati loro, poi di essere stati loro ma in acque internazionali, poi di essere stati loro ma in acque non territoriali, e infine di essere stati loro “ma siamo militari e abbiamo l’immunità funzionale”.
Non pago, Riotta tira in ballo anche lo Sri Lanka, che «negli ultimi anni ha ucciso cinquecento pescatori indiani […] senza che i diplomatici mai venissero presi in ostaggio, i militari di Sri Lanka processati, che i governi montassero la propaganda etnica e populista».
La disputa per i territori di pesca tra Tamil Nadu e Sri Lanka si protrae ormai da anni, con continue alzate di propaganda etnica e populista da entrambe le parti, inframmezzate da periodiche tavole rotonde intergovernative per cercare una soluzione bilaterale a un problema che ogni anno miete vittime da entrambe le parti, poiché pure la Marina indiana quando c’è da sparare spara, specie contro le barche cingalesi.
India e Sri Lanka hanno rapporti tesissimi, ereditati da incursioni terroristiche in territorio indiano mai del tutto sopite e posizioni di fermezza eccessiva dei due esecutivi, in una guerra diplomatica, politica e, a tutti gli effetti, anche militare che ancora non vede un epilogo soddisfacente per ambo le parti. Condizioni che non ci risulta possano essere applicabili nei rapporti bilaterali tra Roma e New Delhi.
Da quando mi occupo del caso dei due marò in India noto una certa propensione della stampa italiana nel scovare casi reputati “simili” alla vicenda dei due fucilieri di marina. Con risultati un po’ melliflui e, spesso, tragicomici.