A 35 anni, l’ex leader studentesco Gabriel Boric ha vinto le elezioni con il 56% dei voti contro il candidato che rappresentava la nostalgia della dittatura di Pinochet
“Aire fresco” è il commento più ripetuto dopo la vittoria di Gabriel Boric, il 19 dicembre 2021, al secondo turno delle presidenziali in Cile. La brezza fresca di cui parlano tutti si riferisce alla generazione di trentenni che chiude la lunga transizione democratica, con tanto di nuova Carta Magna che l’Assemblea costituente sta scrivendo. È una brezza che potrebbe farsi sentire in tutta la regione, dove già si parla di una ola rosa, un nuovo ciclo progressista dopo quello vissuto nella prima decade del secolo. Se e come potrà spirare davvero, è una domanda tutta aperta.
La foto di famiglia degli anni Dieci è ormai sbiadita. C’è chi è morto da tempo, come Hugo Chávez, lasciando il Paese in un abisso economico, politico e sociale. C’è chi si è votato al potere a qualunque prezzo, come la coppia Ortega in Nicaragua e chi è finito nella polvere, come Evo Morales, dovendo far spazio ai suoi uomini meno compromessi. Chi ha lasciato le redini ed è inseguito dalla giustizia, come Rafael Correa e chi alla giustizia ha pagato un prezzo altissimo e ne è uscito a testa alta, come Lula da Silva in Brasile. E chi si è eclissato, è il caso di Cristina Kirchner, per riapparire vice di un uomo considerato perbene. Su tutti persiste l’ombra lunga del castrismo, che per la prima volta in sessant’anni ha visto nel luglio scorso un popolo furioso riempire le strade di Cuba al grido di libertà.
Gabriel Boric sembra guardare quell’interno di famiglia con distacco e dimestichezza assieme. Il primo paletto l’ha messo fin da subito: “il rispetto incondizionato dei diritti umani”, condannando senza mezzi termini le violazioni sistematiche commesse a Cuba, Nicaragua e Venezuela. Un paletto diventato priorità per il governo che entra in carica l’11 marzo: ministra degli esteri è Antonia Urrejola, già presidente della Commissione interamericana dei diritti umani (CIDH). “Prima di parlare di ola rosa bisognerebbe intendersi su cosa significa in America Latina essere di sinistra e progressista”, riflette Lucia Miranda Leibe, politologa dei movimenti sociali alla Flacso Chile. “Qui non si può fingere che una delle discriminanti sia il rispetto della democrazia da una parte e gli atteggiamenti autoritari, il disprezzo per le libertà e i diritti umani dall’altra”.
In una intervista alla BBC pochi giorni dopo la sua elezione, Boric si è espresso così: “Provengo dalla tradizione socialista libertaria americanista cilena. Sono un democratico”. E tra i suoi riferimenti, oltre alla spagnola Podemos, con cui condivide l’anagrafe, il battesimo nelle lotte sociali e la critica aspra alla transizione democratica neoliberista, ha detto di guardare con interesse al presidente boliviano Lucho Arce e agli studi di Garcia Linera, Lula e Fernando Cardoso in Brasile e Gustavo Petro in Colombia. A dire il vero, l’unico che Boric ha abbracciato (virtualmente) durante la sua campagna elettorale è stato Pepe Mujica, l’ex Presidente uruguayano, che pure è il solo di quella foto di inizio secolo a esserne uscito in piedi e per di più come un gigante.
Di sicuro, la vittoria di Boric ha entusiasmato tutto lo spettro delle tante sinistre latinoamericane. Anche Nicolás Maduro ha gioito, ma è stato prima freddato via twitter dal neoeletto, cui si sono sommate le critiche a muso duro di Gustavo Petro e pure di Pedro Castillo, il Presidente peruviano dichiaratamente di sinistra. Alla fine Maduro, intervenendo nello show di regime Con el mazo dando, ha perso le staffe, definendoli “codardi, senza morale, indegni di criticare la rivoluzione bolivariana”.
Il fatto è che Gabriel Boric è davvero un alieno per gran parte del mondo latino progressista e di sinistra. È estraneo alla loro liturgia e alla loro retorica, cita Salvador Allende come omaggio a delle radici eretiche e non per nostalgia. È il politico latino più prossimo alla socialdemocrazia europea. Lo sanno anche di là dalla Cordigliera, dove “il peronismo riformatore”, tornato al governo nel 2019, “ha sì tirato un sospiro di sollievo per la sconfitta di un ultrà di destra, ma non ha nessuna affinità con la visione di Boric”, riflette Ignacio Labaqui, docente di politica latinoamericana alla UCA di Buenos Aires. Qui l’aria fresca cilena è di là da venire e nessuno nell’arena politica sembra assomigliare a Boric: non Máximo Kirchner, “che non viene dalle lotte studentesche e sociali, ma ha solo ereditato il potere; forse Axel Kicillof, attuale governatore di Buenos Aires, ma resta molto dogmatico”.
Per di più, è difficile che qualcuno a sinistra capisca Gabriel Boric quando parla di femminismo e auspica di finire il mandato con meno potere di quello con cui inizia. “Credo abbia a che fare con due discriminanti – continua Lucia Miranda Leibe – La prima è generazionale, la seconda è il fatto di uscire dai movimenti studenteschi e sociali: è in quel contesto e non nei partiti di sinistra che gran parte del femminismo ha trovato spazio. I movimenti hanno riconosciuto il debito che la società aveva con il femminismo e l’hanno assunto. Dove questo non succede, lo stridore è inevitabile”.
È un elemento su cui riflette anche Carolina Cepeda Másmela, docente alla Universidad Javeriana di Bogotá: “Trovo interessante che in più di un’occasione siano coincise le mobilitazioni sociali in Cile e in Colombia. Ma se in Cile si sono catalizzate attorno a una nuova Costituzione, da noi la via d’uscita non può che essere l’attuazione della Costituzione del 1991 e gli Accordi di pace del 2016. Tutti i temi delle proteste e del grande paro nacional del 2020 sono sul tavolo: per essere credibile, è là che Gustavo Petro, dato per gran favorito, deve attingere e farle proprie”.
Tutti sembrano concordare sull’innovazione che solo i movimenti sociali possono assicurare se trovano spazio nell’offerta politica. Boric in questo è un modello. E il femminismo la principale cartina di tornasole, che lo stesso Boric rivendica e su cui si scontrano la tiepidezza di Lula, le uscite misogine di Castillo, le provocazioni di Petro e l’aperto astio del messicano López Obrador. A proposito di Messico, Mariana Aparicio Ramírez, del Centro relazioni internazionali della Unam, prova a immaginare il rapporto tra i due, così distanti per età e pensiero politico: “Il primo anno sarà una luna di miele: AMLO legge quello che è successo in Cile con lenti antiche, come il trionfo storico della sinistra per via democratica, ma quando sul tavolo si parlerà di femminismo, ecologismo, antiautoritarismo, stato di diritto, i due finiranno per scontrarsi”.
Di certo, chi ora scommette sulla ola rosa potrebbe rimanere deluso. E a chiedere se Boric possa accelerare l’integrazione e la cooperazione regionale, tutti scuotono la testa. Per Ignacio Labaqui, “ognuno ha grandi sfide interne da affrontare e nonostante la sinistra ami la retorica latinoamericanista, neanche nel primo decennio, quando sembravano tutti così complici, è stato fatto alcun passo avanti”. “Il Messico resta ancorato agli Stati Uniti e nonostante la buona gestione della CELAC, girare davvero lo sguardo verso Sud sarebbe un costo enorme – sottolinea Marian Aparicio Ramírez – Un banco di prova sarà la Alianza del Pacifico – continua la docente, riferendosi al patto tra Cile, Messico, Colombia e Perù – Non ha obiettivi politici ma è una intesa di libero commercio che si sta aprendo verso l’Asia, l’unica su cui Boric ha espresso il suo interesse. Parliamo del meccanismo più liberista, il che fa intuire il grado di pragmatismo del nuovo presidente cileno e di come in Cile quella estera sia una politica di Stato e non del Governo di turno”.
Carolina Cepeda Másmela mette un altro elemento che peserà come un macigno sull’agenda di ognuno, Boric compreso: “I movimenti indigeni”. Perché, spiega, “sono stati protagonisti del ciclo di proteste degli ultimi anni e le loro rivendicazioni sono rimaste aperte in ogni paese a intensità diverse. E, ricordiamolo, sono stati l’opposizione più forte ai governi di sinistra degli anni Dieci. Ma la risposta passa per la messa in discussione del modello estrattivista: qualcuno tra i nuovi governanti progressisti sarà in grado di farlo?”.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
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La foto di famiglia degli anni Dieci è ormai sbiadita. C’è chi è morto da tempo, come Hugo Chávez, lasciando il Paese in un abisso economico, politico e sociale. C’è chi si è votato al potere a qualunque prezzo, come la coppia Ortega in Nicaragua e chi è finito nella polvere, come Evo Morales, dovendo far spazio ai suoi uomini meno compromessi. Chi ha lasciato le redini ed è inseguito dalla giustizia, come Rafael Correa e chi alla giustizia ha pagato un prezzo altissimo e ne è uscito a testa alta, come Lula da Silva in Brasile. E chi si è eclissato, è il caso di Cristina Kirchner, per riapparire vice di un uomo considerato perbene. Su tutti persiste l’ombra lunga del castrismo, che per la prima volta in sessant’anni ha visto nel luglio scorso un popolo furioso riempire le strade di Cuba al grido di libertà.