
La multinazione del cibo McDonald’s ha annunciato la vendita dei propri asset in Cina e Hong Kong: una quota di controllo andrà ai cinesi di Citic Group, un’altra alla Carlyle Group. Per Citic, una delle più grandi compagnie di stato cinesi, un «conglomerato», andrà una quota cospicua, del 52%, mentre per Carlyle arriverà una partecipazione del 28%. All’azienda americana rimarrà in mano il 20% degli asset.
Cosa significa? Significa che la strategia del colosso americano ha dovuto fare i conti con un mercato cinese nel quale il brand non ha sfondato come ci si aspettava negli anni 90 quando è cominciata la conquista della Cina. Significa che per il piano di marketing e di posizionamento di Mc Donald’s l’accordo con l’azienda cinese Citic risulterà fondamentale per rendere pratica la strategia che vuole uno sviluppo nelle città di secondo e medio livello.
In un paese dalla grande tradizione culinaria come la Cina, Mc Donald’s – ad oggi – non ha sfondato come era stato pronosticato. Mentre altre catene hanno riempito il paese di succursali, l’azienda più famosa al mondo per gli hamburger ha dovuto affrontare diversi problemi.
Dopo aver portato per la prima volta in Cina ristoranti dotati di servizi igienici e aria condizionata, la grande innovazione dell’epoca, la novità è parsa scontrarsi con un crescente nazionalismo che ha fatto della Mc Donald’s un simbolo dell’ingerenza americana nel tessuto sociale e nelle tradizioni cinesi.
Unitamente a questa difficoltà ne sono arrivate altre: uno scandalo alimentare che ha intaccato il brand, portando i cinesi a snobbare la catena. L’azienda americana si vide costretta a togliere dal menu la carne di manzo: lo scandalo, come riporta Agi China, si concluse male: «il gruppo di Shanghai Husi, controllato dalla statunitense Osi, che riforniva di carne i fast food, è stato condannato al pagamento di una multa da 17 milioni di yuan (2,5 milioni di dollari)».
Questo accordo recente, infatti, secondo gli esperti di settore consentirà a Mc Donald’s di recuperare il tempo e i soldi perduti in Cina.
L’obiettivo infatti è quello di aprire almeno altri 1500 fast food tra la Cina e Hong Kong. La partenership dovrebbe dare vita al più grande franchising Mc Donalds’ fuori dagli Usa.
Il consorzio cinese ha fatto sapere che prevede di concentrarsi sull’apertura di nuovi ristoranti nelle città di terzo e quarto livello. Per Citic, come riporta il New York Times, sulla base delle parole di Chang Zhenming, presidente del conglomerato cinese, «l’accordo è un’opportunità strategica per Citic a investire nell’espansione del settore del fast food in Cina».
Se McDonald’s riesce a ottenere il posizionamento nelle città medie cinesi, in grande crescita proprio per le politiche di urbanizzazione della dirigenza cinese, «ci potrebbero essere opportunità di crescita», secondo Joel Silverstein, presidente della società di consulenza East West Hospitality Group, specie in relazione a competitors come Jfk, favoriti dalla passione cinese per il pollame.
Cosa significa dunque questa conquista cinese di Mc Donald’s salutata da molti come una svolta storica? È bene precisare alcune cose. La Cina, infatti, viene spesso rappresentata e analizzata con due semplici e superficiali chiavi di lettura: da un punto di vista nostalgico, per così dire, viene vista come una sorta di avamposto socialista, ancora oggi comunista, un baluardo mondiale in grado di rappresentare una potenza fondamentalmente anti atlantista. Dall’altro lato c’è chi ancora oggi si ostina a considerarla solo un regime, che fa leva su un partito solo di nome «comunista», che però opera all’interno di logiche capitalistiche.
Purtroppo per gli uni e per gli altri, non è vera né l’una né l’altra semplificazione. Per fortuna la Cina è un paese complesso nel quale confluiscono rivoli storici del maoismo, specie nella gestione interna del potere, unitamente a un afflato totalmente globalizzato e perfettamente inserito, pur se con molte precauzioni e attenzioni, all’interno del mercato economico e finanziario mondiale.
Analogamente da un punto di vista puramente geopolitico, la Cina si muove avendo come bussola gli interessi della propria oligarchia al potere non certo per uno spirito «internazionalista» che pare ormai dimenticato perfino dai suoi più nostalgici supporters.
Voler spingere – da un lato o dall’altro – la lettura della Cina contemporanea è sbagliato, anzi non solo: è dannoso: Pechino si muove seguendo gli interessi precisi della propria oligarchia al potere (un connubio tra aristocrazia del partito e funzionari legati al business delle grandi aziende di stato, per niente interessati ai diritti dei lavoratori e dei più deboli) gestendo in modo rigido il controllo ideologico del paese e cercando di assicurare uno sviluppo e un benessere per evitare tragedie sociali. Sulla base di questo patto silenzioso, dal 1989 ad oggi, Pechino ha governato il paese.
I cittadini rispettano questo patto, purché gli venga garantito un livello di vita superiore al passato. Indubbiamente, ad oggi, la dirigenza comunista è riuscita a districarsi, garantendo il risultato positivo di questa alchimia, pur «tappando» – probabilmente – molte energie innovative attraverso un ferreo controllo della vita sociale.
Una crescita al 6,7% come annunciato in questi giorni dovrebbe – inoltre – consentire al Pcc di gestire al meglio il proprio patrimonio politico in tempi di grande confusione e difficoltà economica, conquistando anche quel versante nazionalista interno che di sicuro apprezza anche la mossa di «conquista» dell’americano Md Donald’s specie in concomitanza con l’arrivo di Trump alla presidenza.
C’è da chiedersi cosa pensino quei lavoratori che ancora oggi vivono la trasformazione cinese in modo precario e rischioso, tra vendite di rami di aziende e battaglie per i salari e gli straordinari non pagati.