
La Cina post 1989 ha sempre guardato all’Unione sovietica e alla sua dissoluzione, come uno spauracchio per il Partito. Da una visione positiva della glasnost di Gorbachev, si è poi passati ad analizzare il crollo dell’Urss come un esempio da non ripetere. E 25 anni dopo la caduta dell’ex Urss, il dibattito è ancora aperto.
Un articolo pubblicato di recente da Foreign Policy ha analizzato la percezione della dirigenza cinese, sia quella politica, sia quella intellettuale, rispetto al crollo dell’Unione sovietica.
La riflessione è particolarmente interessante in questa fase, nella quale la Cina è al centro delle trame internazionali, sia geopolitiche, sia economiche, e a breve dovrà contrastare l’effetto Trump, tanto su questioni che Pechino considera “interne”, vedi Taiwan e Hong Kong, sia su questioni di natura commerciale.
In più, questa riflessione sul crollo sovietico permette di comprendere la diffidenza da parte della dirigenza cinese nei confronti di ong e organizzazioni che nel tempo hanno tentato di entrare nel paese per influenzarne le scelte. La diffidenza della dirigenza cinese, come del resto avviene per le cosiddette “rivoluzioni colorate”, è massima proprio perché riferita – con lo sguardo storico e politico – a quanto accaduto 25 anni fa.
A partire dalla considerazione dell’attività di Gorbachev, salutato inizialmente come un riformatore di quelle strutture che si rifacevano all’Urss e che avevano bisogno di essere al passo con i tempi, la dirigenza comunista cinese ha sempre guardato con grande attenzione all’esempio russo.
Del resto tutta la struttura politica ed economica della Cina – benché si fosse da tempo creata una frattura, che secondo alcuni intellettuali fu l’inizio della fine della guerra fredda – era stata costruita a immagine e somiglianza dell’Unione sovietica.
Fin dall’inizio dell’opera riformatrice di Gorbachev però, in Cina si cominciò a ragionare su come garantire al Partito comunista cinese una lunga vita, attraverso il tentativo di modernizzarne quadri e funzionamento. Fin dall’inizio del crollo, infatti, apparve chiaro ai cinesi che l’Urss costituiva un pericolo reale anche per la Cina. Pertanto non andavano ripetuti gli errori commessi da Mosca.
La caduta dell’impero sovietico è un vero e proprio incubo per i governanti cinesi, tanto che quando Xi Jinping è diventato il leader del paese, lui stesso ha profferito parole chiare sulla differenza tra lui e Gorbachev: molti analisti in precedenza avevano avvicinato le due figure, dando seguito alla nomea di “riformatore” del nuovo leader cinese.
La realtà ha dimostrato un’altra cosa: lo spirito riformatore di Xi Jinping si è mosso infatti su coordinate ben diverse da quelle del leader della perestroika, anzi: Xi ha finito per stringere il partito al suo dominio, conquistando cariche e potere, usando la mano pesante contro ogni forma di dissidenza, garantendo così al Pcc l’esistenza come fulcro centrale della politica cinese.
Con l’avvento di Xi la riflessione cinese sull’Unione sovietica ha preso una strada ben precisa: per non incorrere negli stessi errori è necessario che la Cina mantenga la propria sovranità territoriale intatta, con un chiaro riferimento alle escandescenze di alcune regioni problematiche come Tibet e Xinjiang, e tenere fuori dal paese l’Occidente.
La dissoluzione territoriale e la possibilità per l’Occidente, leggi principalmente gli Usa, di inserirsi nelle vicende politiche russe sono considerate da Pechino come le cause principali del crollo del blocco sovietico. Non a caso Xi nel suo discorso di fine anno ha insistito molto sulla questione della sovranità territoriale. Confini, controllo totale del partito e della società, sono le linee guide della dirigenza cinese per evitare il rischio “Urss”. E Trump dovrà prenderne atto.
@simopieranni