La Cina ribadisce la richiesta di stabilità agli Stati Uniti, confermando il rapporto di interdipendenza tra le due potenze: se crolla una, sono dolori anche per l’altra. In realtà l’attuale situazione di difficoltà degli Usa, alle prese con shutdown e rinnovo del tetto sul debito, provoca per la Cina una situazione delicata a livello economico, ma tutto sommato positiva a livello strategico e diplomatico asiatico.

A causa infatti dei problemi interni, Obama ha rinunciato al viaggio in Asia, dove avrebbe dovuto puntellare la sua strategia di pivot to Asia, che invece rimane nelle mani di Kerry (mandato all’Asean e all’Apec) e Hagel (repubblicano, già in Asia nella guerra del Vietnam e spedito in Giappone). Non si può dire sia come se ci fosse Obama.
Anche perché in contemporanea all’assenza di Obama, c’è invece una presenza decisamente forte di Xi Jinping. Il Presidente cinese – secondo il quale «la ripresa economica sarà lunga e tortuosa» e che ha ribadito per la Cina una crescita prevista intorno al 7 percento – sta scorrazzando in Asia e legando a doppio filo economico anche paesi ultimamente dati come molto vicini a Washington, Filippine e Malesia su tutti.
Obama promette droni e garanzie di difesa, Pechino elargisce soldi e progetti di «banche delle infrastrutture» fuori dai radar di Washington. Si potrà discutere di soft power, di fascino internazionale, ma ad ora la strategia di investimenti cinesi, ovvero soldi e subito, a fronte anche di problematiche legate a contese territoriali, sta funzionando meglio del cervellotico approccio asiatico di Obama.
E del resto anche i tradizionali alleati americani dell’area, Giappone e Corea del Sud, cominciano a essere vagamente dubbiosi sulla reale forza americana. La vicenda siriana non è stata letta in senso positivo da quelle parti e non pochi – specie in Corea – si chiedono se Washington sia ancora veramente in grado di tenere fede ai patti presi.
Patti che in questo momento la Cina vede vacillare dal punto di vista economico: immaginare ridotti a carta straccia gli oltre mille miliardi di buoni del tesoro Usa detenuti dalla Cina – secondo il Financial Times sarebbero anche di più per l’utilizzo da parte di Pechino di intermediari – non è propriamente il modo migliore per stemperare tensioni geopoltiche già in corso tra i due paesi.
Il vice ministro delle Finanze cinesi è stato chiaro: ««gli Stati Uniti hanno una grande quantità di investimenti diretti in Cina e la Cina ha un gran numero di buoni del tesoro statunitensi. Gli Stati Uniti sono chiaramente consapevoli delle preoccupazioni della Cina circa la situazione di stallo finanziario di Washington e la richiesta della Cina per gli Stati Uniti per garantire la sicurezza degli investimenti cinesi».
Chi ha meno peli sulla lingua è la stampa locale, che invece nei giorni scorsi, presupponendo l’escalation del problema, sebbene nel clima vacanziero cinese, aveva attaccato – alla stregua di Warren Buffet che ha definito i politici americani «idioti» – il sistema partitico americano. Piccole vendette politiche, dettata dalla paura che tutto, da un momento all’altro, possa clamorosamente crollare.
La Cina ribadisce la richiesta di stabilità agli Stati Uniti, confermando il rapporto di interdipendenza tra le due potenze: se crolla una, sono dolori anche per l’altra. In realtà l’attuale situazione di difficoltà degli Usa, alle prese con shutdown e rinnovo del tetto sul debito, provoca per la Cina una situazione delicata a livello economico, ma tutto sommato positiva a livello strategico e diplomatico asiatico.