
Mentre la Cina annuncia una ristrutturazione che dovrebbe coinvolgere circa 6 milioni di lavoratori delle aziende di stato, partono le due sessioni, il momento legislativo del paese. Come al solito attenzione all’economia, alle riforme, che dovrebbero traghettare il paese verso un’economia trainata dal mercato interno. In ballo il nuovo piano quinquennale e i nuovi obiettivi di crescita.
Nei giorni scorsi il governo di Pechino aveva annunciato un taglio di 1,8 milioni di lavoratori impiegati nelle aziende di stato. Si tratta per lo più di compagnie impegnate nel settore minerario. L’annuncio è ufficiale, perché uscito dalla bocca di Yin Weimin, ministro per le «risorse umane e la sicurezza sociale» (un nome ministeriale orwelliano, visti gli esiti della sua attività). C’è poco da fare per queste persone che dal fondo della terra emergono dopo tante ore di massacrante lavoro. È la «nuova normalità» di Xi Jinping, fattore determinante per la realizzazione del «sogno cinese», condizione fondamentale per lo sviluppo della nuovissima Cina, alla ricerca di un modello economico capace di reggere alle nuove sfide. E per le «aziende zombie», così chiamate perché sopravvivono solo grazie alle sovvenzioni di Stato, i tempi cominciano a essere grami.
Non solo, perché la Reuters ieri ha citato fonti che testimonierebbero tagli ben più pesanti: addirittura sei milioni di lavoratori verrebbero espulsi dal circuito produttivo. I settori interessati sono sempre quelli: acciaio, carbone principalmente. I motivi sono reiterati da tempo dalla dirigenza: la Cina ha bisogno di meno inquinamento, meno sovrapproduzione, meno crediti che le banche non recupereranno — forse — mai. Secondo Reuters, «la leadership cinese è ossessionata dal mantenimento della stabilità e per fare in modo che comportino disordini, spenderà quasi 150 miliardi di yuan (23 miliardi di dollari) per ammortizzare i licenziamenti nei soli settori del carbone e dell’acciaio nei prossimi 2–3 anni».
Queste indiscrezioni non sono state, ovviamente, confermate da alcuna fonte ufficiale, ma l’aria che tira è evidente.
Lo stesso premier Li Keqiang, già tempo fa, aveva posto l’eliminazione delle «aziende zombie» al primo posto nella speciale lista per rilanciare il paese. Le motivazioni non sono solo interne ma anche internazionali. La Cina lotta, e probabilmente avrà il successo sperato, per ottenere lo status di «economia di mercato». Per fare ciò deve dimostrare alla comunità internazionale di avere intenzioni buone.
Del resto la Cina non è nuova a ristrutturazioni di questo genere: nel periodo che va dal 1998 al 2003 furono circa 28 milioni gli «esuberi». Il costo per il governo centrale fu di circa 11,2 miliardi di dollari in fondi di «reinserimento». Pechino sa che può farcela, e ha la consapevolezza della necessità, un obbligo quasi, di questa manovra.
Nel frattempo a Pechino si lavora per il futuro: il China Daily ha specificato che “in un momento di rallentamento della ripresa economica globale, le questioni economiche prenderanno il centro della scena”.
Il premier Li Keqiang svelerà l’obiettivo di crescita economica del paese, mentre le assemblee legislative cinesi studieranno il progetto di 13° piano quinquennale.
Mercoledì Wang Guoqing, portavoce per la sessione annuale dell’organo consultivo politico, ha risposto a 17 domande in una conferenza stampa. Quasi la metà di esse erano incentrate sulle questioni economiche. Un rapporto separato presentato in occasione della riunione di apertura ha mostrato che «circa un terzo delle più di 6.000 proposte presentate dai consiglieri politici lo scorso anno ha coinvolto questioni economiche».
Chi Fulin, membro del Comitato Nazionale del CCPPC, ha detto: «Penso che un tasso di crescita del PIL del 6,5-7 per cento sia realizzabile quest’anno La questione chiave è come afferrare nuove opportunità di crescita».
@simopieranni