La guerra in Ucraina sta dimostrando quanto sia difficile conquistare un territorio protetto dall’Occidente. Con la visita di Nancy Pelosi a Taiwan, il Partito comunista cinese mostra un nuovo approccio
La visita di Nancy Pelosi a Taiwan e la conseguente reazione muscolare di Pechino hanno riacceso i riflettori su una delle grandi questioni latenti del nostro secolo. L’isola di Formosa, dove si è sviluppata una Cina alternativa, vicina ai valori occidentali, è uno dei nodi che il Partito comunista cinese (Pcc) vorrebbe sciogliere entro il 2049, anno in cui festeggerà i 100 anni alla guida della Cina, nonché tutti i suoi successi economici e politici raggiunti.
La situazione, però, è complicata. Sottovalutarla potrebbe portare grandi problemi, trasformando il sogno della riunificazione con Taiwan in un incubo. Pechino è consapevole di questo: infatti, nonostante il traguardo dell’unità territoriale sia uno dei suoi interessi nazionali principali, per il momento, decide di non agire. Partendo dall’assunto che il dragone, passato il fervore ideologico di Mao, si è sempre contraddistinto per la sua razionalità e pragmaticità d’azione, forse i potenziali rischi sono più dei benefici.
L’approccio cinese verso Taiwan
L’approccio del Pcc verso Taiwan è cambiato nel tempo, rimanendo coerente con le strategie generali di politica estera adottate dalla Cina. Dall’avvento di Deng Xiaoping fino a quello di Xi Jinping, per quanto intransigente verso Taiwan e chi ne supportasse l’indipendenza, la Cina mantenne un basso profilo seguendo il motto “Tao Guang Yang Hui”, traducibile come “Nascondi la tua forza e aspetta il tuo tempo”. Ciò era dettato da un ragionamento semplice e razionale: attaccare Taiwan sarebbe equivalso a rischiare un confronto diretto con gli Stati Uniti, qualcosa che il dragone non era ancora pronto a fare. Tutte le energie, in quel periodo, furono focalizzate sullo sviluppo economico, motivo per cui era fondamentale un ambiente esterno stabile che permettesse alla Cina di integrarsi nell’economia globale capitalista. Come ci ricorda Suisheng Zhao, professore di politica cinese presso l’Università di Denver, la Cina è essenzialmente realista: la sua politica estera è ponderata sulla base del suo potere relativo nel mondo. Questo aspetto è più evidente che mai nei confronti della questione di Taiwan. Oggi che Pechino è consapevole di essere una superpotenza economica e politica, il suo approccio è diventato molto più intransigente e assertivo.
La leadership di Xi Jinping ha introdotto un nuovo elemento nella gestione delle relazioni con gli altri attori del sistema internazionale, la “Red Line Diplomacy”. Si può tradurre come “diplomazia della linea rossa” ed esprime un concetto chiaro che Xi ha ribadito durante tutti i suoi discorsi più importanti: la Cina non è più disposta a sacrificare i suoi interessi nazionali, neanche davanti agli Stati Uniti; ci sono questioni su cui non si possono fare compromessi, una di queste è l’unità territoriale della Cina. In questi casi, Pechino ha tracciato una linea rossa che non deve essere superata. La reazione alla visita di Nancy Pelosi a Taiwan, tra esercitazioni militari e sanzioni economiche, è un chiaro esempio di questo nuovo approccio. La Cina ha reagito più vigorosamente che mai, consapevole e non curante del fatto che questo avrebbe deteriorato il già fragile dialogo con gli Stati Uniti. Nonostante ciò, la Cina si è limitata a esercitazioni, continuando a rimandare un’azione concreta per riprendere il controllo su quella che è, a tutti gli effetti, considerata una provincia ribelle.
La riunificazione con Taiwan, per quanto sia un elemento centrale delle aspirazioni di Pechino, presenta oggi numerosi rischi. Il caso ucraino, per quanto diverso, ha ricordato quanto sia difficile conquistare un territorio dichiaratamente ostile e appoggiato dall’Occidente. Lo smisurato vantaggio militare della Russia su Kiev non è comunque bastato per concludere l’operazione in pochi giorni, come previsto inizialmente; anzi, dopo più di 5 mesi, lo scenario diventa sempre più incerto per i russi. Lo stesso è stato dimostrato dal caso statunitense in Afghanistan, un conflitto durato più di 20 anni e costato un trilione di dollari alla Casa Bianca, conclusosi con nulla di fatto. Queste operazioni, sulla carta rapide, è facile che si trasformino in lunghi, logoranti e costosi conflitti; esattamente quello che Pechino non vuole. Si tratta di un periodo complesso per la Cina, in cui dopo anni di boom economico inarrestabile si è arrivati a una “nuova normalità”, un contesto in cui l’economia cresce più lentamente e in cui emergono le fragilità accumulate nel tempo. A rendere il tutto ancora più delicato è subentrato il Covid, che in Cina continua a condizionare pesantemente la vita dei cittadini e, dunque, l’economia.
Perché la Cina non invaderebbe ora Taiwan
La drastica politica zero Covid attuata dal Governo ha bloccato la ripresa economica del dragone e, per la prima volta dopo tanto tempo, ha spinto i cittadini a protestare contro le misure adottate. In un momento già delicato, una guerra e le sue conseguenze economiche potrebbero mettere in crisi la stabilità del Paese. In passato, durante la leadership di Mao Zedong, l’ideologia comunista era in grado di tenere fedele e unito il popolo, oggi non è più così. Nel momento in cui la Cina ha iniziato, gradualmente, ad aprirsi verso il mondo e a integrarsi con esso, il Paese si è secolarizzato e l’ideologia ha perso il suo potere di coesione. Il socialismo di Mao è stato rimpiazzato dal capitalismo di Stato (o “socialismo con caratteristiche cinesi”) e il Pcc ha iniziato a basare la sua legittimità su un nuovo elemento, la performance economica.
Secondo una stima della Banca mondiale, dal 1978 ad oggi più di 800 milioni di persone in Cina sono uscite dalla condizione di povertà. La Cina è stata capace in meno di mezzo secolo di raggiungere traguardi economici che nessuno, vedendo le condizioni post-Mao, avrebbe mai immaginato. La sopravvivenza dell’egemonia del Partito comunista, e quindi la stabilità interna del Paese, si regge oggi sulla performance economica: il sostegno del popolo è legato ai crescenti benefici derivanti dalla crescita economica. Se quest’ultima dovesse fermarsi, verrebbe a mancare anche il patto tacito tra Governo e popolo. Lo sviluppo economico cinese, oltre a mantenere la stabilità interna, è stato anche ciò che ha permesso al dragone di acquisire maggiore leva politica nel mondo e, dunque, di confrontarsi alla pari con le grandi potenze.
Invadere Taiwan ora, in questo momento storico, vorrebbe dire per la Cina affrontare costi, forse, troppo alti. Taiwan è al centro della catena di approvvigionamento globale di microchip, un elemento cruciale per l’ascesa cinese come superpotenza tecnologica. Un scontro diretto potrebbe portare a un blocco delle forniture, rallentando ulteriormente l’economia cinese e la sua transizione a un’economia digitale guidata dall’innovazione tecnologica. Inoltre, Pechino dovrebbe sostenere i costi dell’isolamento economico che seguirebbe un suo attacco a Taiwan. La globalizzazione è stata la fortuna della Cina e, tutt’oggi, rimane il motore del suo sviluppo economico. L’export è un caposaldo dell’economia cinese e quindi, anche nel caso di un compattamento con la Russia, interrompere i rapporti commerciali con gli Usa e l’Ue (maggiori partner commerciali della Cina) sarebbe un disastro.
La crescita economica rimane la priorità di Pechino e un’azione non ponderata nell’isola di Formosa potrebbe portare a una cascata di conseguenze, economiche e politiche, che metterebbero a repentaglio la crescita economica e, di conseguenza, la stabilità del Paese.
La situazione, però, è complicata. Sottovalutarla potrebbe portare grandi problemi, trasformando il sogno della riunificazione con Taiwan in un incubo. Pechino è consapevole di questo: infatti, nonostante il traguardo dell’unità territoriale sia uno dei suoi interessi nazionali principali, per il momento, decide di non agire. Partendo dall’assunto che il dragone, passato il fervore ideologico di Mao, si è sempre contraddistinto per la sua razionalità e pragmaticità d’azione, forse i potenziali rischi sono più dei benefici.