
Kim Jong-un aveva minacciato di bombardare Guam, poi ha rinviato la decisione. Trump è stato travolto dagli eventi di Charlottesville e ha cacciato il suo stratega Steve Bannon, contrario alla linea sulla Corea di Washington. La Cina è nella sua fase «autocentrata» e pare pensare solo al prossimo Congresso del Pcc. Tra esercitazioni Usa e risposte missilistiche di Kim Jong-un a che punto è – davvero – la crisi coreana?
Poco prima di essere licenziato da Trump, Steve Bannon, lo «stratega» voluto da The Donald alla Casa Bianca, aveva detto a proposito della Corea del Nord che non esisteva, in realtà, alcun piano militare al proposito: «Fino a quando non si dimostra che dieci milioni di persone a Seul non muoiono nei primi trenta minuti da armi convenzionali non so di che si parla. Non c’è nessuna soluzione militare». Bannon era stato invece molto più tranchant sulla Cina, da sempre un suo obiettivo (come ha dimostrato la campagna elettorale di Donald Trump).
Durante una chiacchierata (a quanto pare voluta proprio da Bannon) con The American Prospect, lo stratega – poco prima di essere licenziato – aveva specificato che «quella con la Cina è una battaglia che combatto ogni giorno. Stiamo ancora combattendo. Di mezzo c’è la lobby del Tesoro, Gary Cohn e di Goldman Sachs», aggiungendo infine la sua ossessione, ovvero la necessità di una guerra economica con la Cina: «Questa è la cosa più importante: dobbiamo restare focalizzati in maniera maniacale su questo. Se continuiamo a perderla, da qui a cinque-dieci anni raggiungeremo un punto di flessione da cui non saremo mai capaci di riprenderci».
Da capire – adesso, con l’uscita di scena ufficiale di Bannon – come proseguirà la politica Usa nei confronti di Cina e Corea del Nord, dopo che a Trump sono arrivati anche importanti indicazioni da parte di Henry Kissinger, noto conoscitore degli affari cinesi. Secondo Kissinger l’aumento della tensione non porta a niente di positivo, anzi. Non portare a un negoziato la Corea del Nord rischia di creare una situazione drammatica non tanto ora, da un punto di vista militare, quanto in futuro: il rischio, dice il Nobel Kissinger, è una corsa al nucleare da parte di altri paesi dell’area.
Negli ultimi tempi, in ogni caso, la situazione sembra essersi normalizzata e non solo perché Trump ha avuto altri problemi, così come Pechino è stata interamente concentrata nell’incontro – semi segreto – del partito comunista a Beidahe, appuntamento tradizionale dell’estate e quest’anno focalizzato sull’imminente congresso del Pcc ad autunno. Dal suo canto anche Kim Jong-un ha smorzato le minacce, rimandando l’attacco a Guam, il cui annuncio aveva di nuovo fatto innalzare la tensione. Ma ormai il gioco pare chiaro: Kim provoca trovando in Trump una controparte altrettanto attratta dallo scontro mediatico, ma poi sa bene di non potersi spingere, nei fatti, più in là di questo scontro dialettico.
Non a caso – nonostante le esercitazioni congiunte tra Washington e Seul in corso e la risposta di Pyongyan con il lancio di tre missili come segnale di fastidio – i segnali che sono arrivati da tutte le parti in causa sono stati improntati a smorzare i toni. Nelle settimane agostane il capo dell’esercito americano è stato in visista in Cina e ha chiesto a Pechino di esercitare maggiore pressione sulla Corea del Nord a fronte della minaccia posta dai suoi programmi di sviluppo balistico e nucleare. Stando a quanto riferito da un portavoce del Pentagono, Darryn James, il capo di Stato maggiore, generale Joe Dunford avrebbe «consegnato un messaggio chiaro sul fatto che i programmi balistici e di armi nucleari della Corea del Nord minacciano l’intera comunità mondiale, comprese la Cina, la Russia, gli Stati Uniti e i nostri alleati – si legge nella nota del Pentagono – nell’interesse della stabilità regionale ha detto che gli Stati Uniti vedono con crescente urgenza la necessità per la Cina di aumentare la pressione sul regime nordcoreano».
Se dovessero fallire le opzioni pacifiche di tipo diplomatico ed economico, il generale Dunford ha ribadito la risolutezza americana a usare tutte le capacità militari «per difendere i nostri alleati della Corea del Sud e del Giappone, così come il territorio americano», smentendo a distanza quanto detto in contemporanea, negli Usa, da Bannon.
Dal canto suo Pechino ha voluto sottolineare gli evidenti «segnali di un allentamento della tensione intorno alla Corea del Nord», ribadendo la necessità «di lavorare insieme per risolvere definitivamente la crisi che non è ancora stata risolta».
«Attraverso gli sforzi di tutte le parti, ha aggiunto, le tensioni sulla penisola coreana stanno mostrando alcuni segni di allentamento, ma la crisi di agosto non è ancora stata superata: le parti devono collaborare per risolverlo».
Il generale americano, dopo Pechino è andato a Seul dove ha incontrato il nuovo presidente sudcoreano Moon Jae-in, che ha ribadito: «non ci sarà una guerra». A Seul il generale ha ammesso che l’ipotesi di una soluzione militare è «orribile», confermando la volontà di abbassare le tensioni e provare ad arrivare, finalmente, a un tavolo negoziale.
@simopieranni
Kim Jong-un aveva minacciato di bombardare Guam, poi ha rinviato la decisione. Trump è stato travolto dagli eventi di Charlottesville e ha cacciato il suo stratega Steve Bannon, contrario alla linea sulla Corea di Washington. La Cina è nella sua fase «autocentrata» e pare pensare solo al prossimo Congresso del Pcc. Tra esercitazioni Usa e risposte missilistiche di Kim Jong-un a che punto è – davvero – la crisi coreana?