In concomitanza con i primi atti protezionisti di Trump e con il discorso a Davos di Xi Jinping, il presidente cinese, si è molto discusso della possibilità che sia la Cina – nel prossimo futuro – a guidare il processo di globalizzazione internazionale. La Cina, quindi, sarebbe in grado di non ripetere – eventualmente – gli stessi errori degli Stati uniti nella gestione del suo patrimonio di potere mondiale?
La stampa italiana mainstream ha molto sottolineato le recenti parole a Davos di Xi Jinping e la sua difesa della globalizzazione (si è parlato del «comunista che difende la globalizzazione», o ancora «il libero mercato») dimenticandosi forse che la parentesi di «chiusura» rispetto al resto del mondo, nella storia cinese è ben poca cosa rispetto alla sua millenaria postura internazionale: prima che la Cina diventasse per un secolo della sua storia il «malato d’Asia», Pechino rappresentava la capitale di una potenza globale, sia economica sia culturale e politica, già protagonista con la via della Seta di intensi scambi commerciali.
Questo per dire che la Cina sapeva bene prima dell’Occidente cosa significasse essere una potenza globale.
Il fatto che oggi Pechino, al termine di una crescita che ha portato sopra il livello di povertà centinaia di migliaia di persone, si riponga alla testa di un mondo globale, con la possibilità di esserne una protagonista sulla scena mondiale, non dovrebbe dunque stupire.
L’idea di globalizzazione di Xi Jinping e della Cina però è molto diversa da quella americana a cui siamo stati abituati dal dopoguerra a oggi.
Un esempio pratico e plastico è quello della cosiddetta nuova via della Seta, ovvero il progetto «One Belt One Road». Si è molto discusso del fallimento del Tpp che favorirebbe proprio la Cina. In realtà Pechino già nel 2013 ha cominciato un certosino lavoro diplomatico e di accordi con molti degli oltre 60 paesi, per un totale di 4 miliardi di persone e un terzo del pil mondiale, che si trovano sulla «rotta» della nuova via della Seta.
Tra il 2015 e il 2016 Xi Jinping ha compiuto un’opera dettagliata in termini diplomatici visitando molti dei paesi toccati dalla OBOR, tra i quali Russia, Kazakistan, Bielorussia, Iran, Pakistan, Sri Lanka, Vietnam, Singapore, paesi africani e naturalmente Gran Bretagna e Stati Uniti.
La «nuova via della Seta» consta fondamentalmente di due tragitti: quello classico che porta in Europa passando dall’Asia centrale e quello marittimo che mira a chiudere in una sorta di «Isola del mondo» i tragitti commerciali, come ebbe a definirla il celebre geografo inglese Mackinder a inizio ‘900, indicando quella parte di Eurasia che la Cina sembra voler conquistare con il commercio.
La Cina ha dovuto superare alcune difficoltà nella realizzazione di questa “piattaforma”: la freddezza russa, la distanza da Singapore per quanto riguarda lo stretto di Malacca, la strategia “pivot to Asia” di Obama.
Cosa ha in mente infatti la Cina con questo progetto? Nato nel 2013 esso vuole assolvere ad alcune funzioni: dare uno sfogo al surplus economico cinese, consentire relazioni bilaterali con molti dei paesi sul percorso dall’Asia all’Europa e stabilire una sorta di regolamentazione commerciale, aperta a tutti, del nuovo mondo multilaterale.
In cosa quindi la Cina potrebbe non ripetere gli errori degli Stati uniti?
1. In primo luogo la Cina propone una piattaforma e non un trattato: chiunque può appoggiarsi, utilizzare e investire nelle infrastrutture e nelle opere che determinano lo scheletro della One Road One Belt, a sua volta progetto di investimenti e infrastrutture (porti, strade, oleodotti)
2. In secondo luogo la Cina non esporta alcun modello; non ha alcuna intenzione di mutare l’assetto politico dei paesi che si affacciano sulla nuova via della Seta. La Cina tratta con chiunque ed è disposta a lavorare con ogni partner che accetti di far parte del progetto.
3. La Cina ha bisogno di stabilità e pace, non di effettuare dei “regime change”, diretti o per procura e in questo si differenzia tanto dagli Usa quanto da un’altra potenza, quella russa.
4. La Cina ha creato organismi internazionali, come l’Aiib o il fondo per la via della seta, nella quale viene data importanza ai paesi in via di sviluppo, al contrario di World Bank o altre istituzioni in cui gli Usa hanno impedito il protagonismo cinese, ad esempio, facendo tracimare la volontà di “contare” nella creazione di nuovi organismi finanziari
5. Infine, chi ha vissuto in Cina può testimoniarlo: i cinesi sono culturalmente più inclini al compromesso che allo scontro e questo si riflette inequivocabilmente nelle relazioni internazionali. I cinesi sono più propensi a cercare un accordo onorevole (senza perdere la faccia) che arrivare al conflitto. Ci si ammorbidisce, anziché cercare lo scontro. E questo è un atteggiamento anche internazionale, che ben conoscono i partner cinesi.
@simopieranni