Dalla caccia agli zombie alle prove di Governo. Dallo spirito pulp da “tifoso” all’esercizio della responsabilità. Lo choc Salvini ha prodotto la metamorfosi
“Abbandoniamo il tifoso che c’è in noi”. L’ha scritto Beppe Grillo il 4 ottobre scorso sul suo blog, a dieci anni dalla nascita del Movimento 5 Stelle e a pochi giorni dalla kermesse annuale di Napoli. Una frase, quella di Grillo, che campeggia nel bel mezzo di un post celebrativo del percorso fatto dal M5S fino a oggi, compresa l’alleanza con il Pd di Nicola Zingaretti (“è uno step evolutivo”, ha scritto l’ex comico). E in effetti il M5S, rispetto al 2009, fa di tutto per apparire altro da sé, a cominciare dal lessico: neanche Grillo in persona, infatti, ricorre più alla retorica pulp della campagna elettorale per le politiche 2013, quella degli slogan che anticipavano un futuro non lontano in cui i 5 Stelle avrebbero scalzato i partiti tradizionali (allora detti “morti che camminano”) e in cui, da cittadini devoti al principio dell’“uno vale uno”, avrebbero “aperto il Parlamento come una scatola di tonno”. Né sembra, il M5S, all’alba del secondo Governo Conte, lo stesso Movimento che nella primavera di quel 2013, durante le votazioni per l’elezione del Presidente della Repubblica, prima e dopo i tentativi falliti di “scouting” da parte di Pierluigi Bersani, si assiepava sotto Montecitorio con toni minacciosi.
Sembra piuttosto, quella di oggi, la fase 4.0 del Movimento, passato dal nulla alla conquista del Parlamento nel 2013, e dal boom alla crisi parziale di consensi tra il 2014 e il 2017, fino alla rinascita del 2018, culminata però con il contratto di Governo populista-sovranista che una parte degli eletti e degli attivisti non ha mai digerito, quello con la Lega di Matteo Salvini. Il ribaltamento del quadro nell’agosto scorso, con la fine dell’alleanza con la Lega e l’avvicinamento all’ex nemico Pd, ha spalancato davanti alla creatura di Grillo la via del dialogo con ambienti istituzionali prima diffidenti, in Italia e nell’Europa dove, nel luglio scorso, la convergenza Pd-5 Stelle sull’elezione alla presidenza della Commissione Ue di Ursula von der Leyen ha consegnato all’opinione pubblica l’immagine di un cambio di registro: la concordia con il centrosinistra, fino ad allora quasi impensabile, era la prima prova dell’incrinarsi dell’asse tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini.
Voltata pagina, a poche settimane dall’insediamento del Governo Conte 2, troviamo sulla scena Davide Casaleggio che parla di cittadinanza digitale all’Onu, e Di Maio, ora Ministro degli Esteri, nella posizione di chi deve costruire una casa nuova senza distruggere quella vecchia. Il processo non è lineare. Né sul tema del lavoro, dove l’equilibrio con il Pd non può essere raggiunto rinunciando ai provvedimenti bandiera dei 5 Stelle (a partire dal reddito di cittadinanza) né sui diritti (argomento su cui il M5S è rimasto spesso in silenzio, a parte una minoranza schierata con la sinistra).
Ma è sull’immigrazione che oggi si gioca una delle partite identitarie più importanti per un M5S nato ibrido, “né di destra né di sinistra” per autodefinizione. L’ambiguità, e l’essere contenitore di malcontento verso “quelli che hanno governato negli ultimi vent’anni”, è la caratteristica che ha permesso al M5S di crescere e raccogliere il voto trasversale degli scontenti. La recente cautela sullo ius culturae è soltanto la punta di una piramide di dubbi. Il tema, in senso lato, è divisivo, nel M5S, fin dai tempi (gennaio 2014) della consultazione lampo sull’abolizione del reato di immigrazione clandestina, con Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio contrari (“se avessimo detto prima delle elezioni una cosa del genere avremmo preso percentuali da prefisso telefonico”, era il concetto), e con gli attivisti in gran parte a favore: 15.839 sì contro 9.093 no.
Sono passati cinque anni – di cui uno al Governo con Salvini – e Di Maio, per distinguersi dall’ex alleato senza appiattirsi sul Pd, cerca di collocarsi a destra dei dem, difendendo però la linea non più salviniana del nuovo Governo, e in particolare del premier Giuseppe Conte. Per il leader a 5 Stelle, infatti, ogni accenno alla redistribuzione dei migranti in Europa non è disgiunta dalla contemporanea rassicurazione sulla necessità di “fermare le partenze”. E questo anche se il decreto interministeriale sui migranti (Esteri-Giustizia-Interno), su cui Luigi Di Maio e il Ministro della Giustizia a 5 Stelle Alfonso Bonafede hanno molto puntato, è stato accompagnato dalla cautela del neo Ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, convinta che “l’immigrazione sia un problema strutturale”, e che non esista una “bacchetta magica” per risolverlo.
Dopo la prova generale di convergenza Pd-5 Stelle sulla nomina di Ursula von der Leyen, intanto, il M5S ha cercato di far dimenticare l’isolamento europeo degli anni precedenti, isolamento aggravato dall’alleanza con Salvini ma già presente. È sempre stato difficile, infatti, per “l’ibrido” M5S, entrare nelle grandi famiglie di Bruxelles e Strasburgo, visto l’oscillare, già dal 2014, tra l’antieuropeista Nigel Farage e i sogni (rimasti tali) di accordo con i liberali dell’Alde e con i Verdi. Gli ostacoli persistono: a inizio ottobre il leader dei Verdi tedeschi Robert Habeck, ferma restando la perplessità sulla precedente alleanza M5S-Salvini, si è mostrato più possibilista, ma preoccupato per i problemi di trasparenza della piattaforma Rousseau. E per quanto i 5 Stelle puntino sul profilo istituzionale di Conte, è ancora viva in Europa la memoria dell’incontro dell’inverno scorso tra l’allora vicepremier italiano Luigi Di Maio e il leader dei “gilet gialli” Christophe Calencon.
Con il flop elettorale del maggio 2019 e la recente inversione a “U” nei rapporti con il centrosinistra, sono cambiate però la percezione e l’auto-percezione dei 5 Stelle, ansiosi di mostrarsi non intransigenti, moderatamente europeisti, non più populisti, in rapida metamorfosi verso la parte per loro accettabile del sistema prima rifiutato in blocco. Ma non si è spenta l’inquietudine all’interno di una forza politica che si compiaceva del proprio essere liquida, disintermediata, “dal basso”, e che si è ritrovata talmente in alto da dover fare i conti con una realtà difficilmente contenibile in un post su Facebook. E se una parte del M5S, quella che ha come punto di riferimento il Presidente della Camera Roberto Fico, si sente sollevata per il cambio di alleanza governativa, l’altra parte scalpita. Le anime del Movimento, alla nascita cangiante e indefinito, faticano a comporsi, come dimostrano i tanti deferimenti ai probiviri, specie sui territori, dove l’idea di esportare a livello locale l’alleanza Pd-M5S non trova unanimità, in Umbria come in Sardegna.
“Chi siamo, dove andiamo?”, si domandavano quelli che, nel M5S, non si erano mai riconosciuti nel tonitruante assalto mediatico di Salvini. E, con Salvini alla ribalta sulla scena del primo Governo Conte, il M5S ha sperimentato la discesa verso la temuta irrilevanza, rischiando la perdita ulteriore di consensi e lo scolorire della propria identità. C’è un nuovo involucro, ora, ma la nuova sostanza è ancora in parte da disegnare: il M5S non vuole più essere identificato con le forze della destra sovranista, ma non può permettersi l’appiattimento a sinistra, dove l’ammorbidimento con i sindacati e la tregua con gli ex nemici non cancella la difficoltà di doversi distinguere da partiti un tempo indicati come la concausa dei mali italiani. La scissione in casa democratica, con conseguente tripartizione di poteri nel Governo tra Pd, M5S e Italia Viva di Matteo Renzi, complica ancora di più il quadro per Di Maio, che non può dirsi al sicuro in una ritrovata armonia governativa, anzi (specie a ridosso della manovra economica). E il Movimento, sospeso tra responsabilità di Governo e piazza inquieta, richieste interne di revisione dei poteri del capo politico e tensioni su Russiagate e rapporti con gli Usa, comincia così ad abbandonare certezze che si erano fatte prigione, prima tra tutte quella della propria infallibilità (“i momenti difficili sono venuti da noi stessi”, dice non a caso Roberto Fico).
@mariannarizzini
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di novembre/dicembre di eastwest.
Puoi acquistare la rivista in edicola o abbonarti.
Dalla caccia agli zombie alle prove di Governo. Dallo spirito pulp da “tifoso” all’esercizio della responsabilità. Lo choc Salvini ha prodotto la metamorfosi
“Abbandoniamo il tifoso che c’è in noi”. L’ha scritto Beppe Grillo il 4 ottobre scorso sul suo blog, a dieci anni dalla nascita del Movimento 5 Stelle e a pochi giorni dalla kermesse annuale di Napoli. Una frase, quella di Grillo, che campeggia nel bel mezzo di un post celebrativo del percorso fatto dal M5S fino a oggi, compresa l’alleanza con il Pd di Nicola Zingaretti (“è uno step evolutivo”, ha scritto l’ex comico). E in effetti il M5S, rispetto al 2009, fa di tutto per apparire altro da sé, a cominciare dal lessico: neanche Grillo in persona, infatti, ricorre più alla retorica pulp della campagna elettorale per le politiche 2013, quella degli slogan che anticipavano un futuro non lontano in cui i 5 Stelle avrebbero scalzato i partiti tradizionali (allora detti “morti che camminano”) e in cui, da cittadini devoti al principio dell’“uno vale uno”, avrebbero “aperto il Parlamento come una scatola di tonno”. Né sembra, il M5S, all’alba del secondo Governo Conte, lo stesso Movimento che nella primavera di quel 2013, durante le votazioni per l’elezione del Presidente della Repubblica, prima e dopo i tentativi falliti di “scouting” da parte di Pierluigi Bersani, si assiepava sotto Montecitorio con toni minacciosi.