Un’intricata matassa politica e giudiziaria mette alla prova gli accordi di pace: la Colombia vive un’ondata di omicidi contro leader sociali e attivisti dei diritti umani. E Uribe dovrà affrontare un processo per vincoli col paramilitarismo. Mentre un ex comandante delle Farc rischia l’estradizione
È un momento particolarmente delicato quello che sta vivendo la Colombia. Forse il più fragile dalla firma degli accordi di pace, quel 24 novembre 2016, tra il governo di Juan Manuel Santos e l’ex-guerriglia delle Farc. Da quel giorno un’ondata di omicidi ha preso di mira attivisti per i diritti umani e leader sociali nelle comunità locali. Nel frattempo, il potente ex-presidente Alvaro Uribe dovrà affrontare un processo per aver intralciato la giustizia e corrotto testimoni in merito ai suoi presunti legami con il paramilitarismo. E, ancora: uno degli ex-comandati più in vista delle Farc, diventate partito politico dalla fine del conflitto, è stato arrestato e potrebbe finire estradato per narcotraffico negli Usa.
Una catena di eventi, insomma, sta mettendo a dura prova gli architrave degli accordi di pace, a cominciare dalla promessa fatta dallo Stato di garantire la vita agli attivisti sociali e di far funzionare la giustizia speciale per la pace.
Tutto questo avviene nella fase di passaggio di poteri a Palacio de Nariño tra Juan Manuel Santos e il nuovo presidente, Iván Duque, figlio politico di Uribe, a capo di una coalizione di destra che ha sempre detestato gli accordi di pace e che ha battuto alle urne il primo candidato di sinistra mai arrivato a un ballottaggio, Gustavo Petro.
In Colombia si sapeva che il post-conflitto non sarebbe stato indolore. È ancora terribile ascoltare le centinaia di storie sugli assassinii che a metà degli anni ’80 hanno decimato attivisti, dirigenti e persino due candidati presidenziali della UP, la Unión Patriótica. All’epoca, proprio dagli accordi di pace tra le Farc e l’allora presidente Belisario Betancur, era venuto alla luce un movimento politico di sinistra capace di coagulare voti e visibilità e finito con almeno 3 mila morti e il ritorno delle Farc, fucile in mano, tra le montagne.
La storia non si ripeterà, giurano tutti. E le stesse Farc, che denunciano la campagna armata, sono caute e osservano attente ciò che si muove nel Paese. Anche se politicamente isolate e circondate dal rigetto di gran parte della società colombiana, temono le mosse del nuovo presidente sostenuto dalla upper class, dai grandi proprietari terrieri e dalle forze sociali più conservatrici: gli stessi che possono godere della potenza di fuoco dei paramilitari e dell’assenza endemica dello Stato in grandi regioni del Paese. A dispetto dei proclami di Duque e alleati, i dirigenti dell’ex-guerriglia ricordano che «gli accordi hanno valore internazionale, con ratifica delle Nazioni Unite e depositati come accordi speciali in base alla Convenzione di Ginevra». Un meccanismo messo in atto proprio per blindarli.
Da parte loro, le agenzie internazionali hanno sottolineato come uno degli obblighi dello Stato, garantire la vita ad attivisti ed ex-guerriglieri, sia stato finora inefficace, come ha sottolineato di recente persino il segretario generale dell’Onu, António Guterres. L’Indepaz, Istituto de estudios para el desarrollo y la paz, ha lanciato nei giorni scorsi il suo report con toni allarmanti: solo quest’anno, fino al 5 luglio, ha contato 124 omicidi nelle regioni dove sono attivissimi i gruppi paramilitari e anche alcuni battaglioni delle Farc che non riconoscono gli accordi e continuano in armi. Se si torna indietro di quasi due anni, dalla firma degli accordi di pace le vittime sarebbero 295. La maggior parte sono uomini e donne impegnati nella Cumbre Agraria e nella Confederación Comunal, nelle zone costiere del Pacifico o dei grandi latifondi del centro-nord: il che significa che è proprio la questione della terra e dell’attivismo contadino al centro del bagno di sangue.
Lo stesso presidente della Repubblica lo ha riconosciuto. In una recente intervista a El Tiempo ha dichiarato che lo Stato sta «restituendo con i titoli legali di proprietà e con progetti produttivi, quasi 300 mila ettari e altri 400 mila sono nelle mani dei giudici. È chi ha cacciato i contadini rubando la loro terre che sta attaccando i leader comunitari».
Secondo Leonardo González, che coordina l’indagine di Indepaz, «gli assassinii continuano a rappresentare il deficit cronico dello Stato: non a caso i meccanismi di autodifesa, come la Guardia Indigena, sono gli unici che realmente hanno funzionato», tenendo in sicurezza le comunità locali.
La Fiscalía finora, ha riconosciuto 181 omicidi negli ultimi tre anni, dei quali solo 89 hanno volto e nome di chi ha sparato e di nessuno il mandante. Ha anche ammesso che sono 67 gli ex-combattenti delle Farc uccisi negli ultimi due anni, di cui 35 solo nei primi 6 mesi di quest’anno.
A complicare le cose è arrivato l’arresto in aprile di Jesús Santrich, uno dei comandanti più importanti quando le Farc erano in armi e ora dirigente del nuovo partito. L’accusa, sostenuta da un’investigazione della Dea, è di narcotraffico prima e soprattutto dopo la firma degli accordi. Santrich è anche uno dei dieci parlamentari assegnati dagli accordi ai membri della Farc.
Accordi che prevedono un sistema di giustizia di transizione, con il supporto delle agenzie internazionali, basato sul principio di justicia, verdad, reparación y no repetición con cui verranno giudicati tutti i reati commessi. Ma se sono compiuti dopo la firma, cosa succede? Da qui un conflitto di interpretazioni che solo la Corte Suprema potrà sbrogliare, ma che ha incendiato il dibattito nel Paese. Per le Farc dimostra come sia in atto un sabotaggio degli accordi e una persecuzione politica; per i loro avversari è l’ennesima prova della natura criminosa dell’organizzazione.
Gli stessi dirigenti delle Farc, pur coscienti del prezzo che avrebbero pagato sin dalla firma degli accordi, sembrano in uno stato di impotenza: nelle ultime settimane hanno incontrato gli ambasciatori dei Paesi negoziatori (Cuba e Norvegia) e accompagnanti (Cile e Venezuela), hanno strappato da Santos impegni sulla sicurezza, hanno implorato le Nazioni Unite a dar seguito alle garanzie. Temono, non tanto che il nuovo presidente stracci gli accordi, il che sarebbe una catastrofe, con un costo politico e internazionale altissimo, ma li sterilizzi e crei un clima di ostilità e di trappole.
D’altra parte, le forze sociali e politiche a sostegno del processo di pace mai sono state così forti e consapevoli. Gli accordi sembrano aver sprigionato energie sociali impensabili fino a qualche anno fa. Persino in parlamento sono ben rappresentate: seppur frammentato e con relazioni spesso di antipatia, se il “blocco per la pace” (come viene chiamato) trovasse una piattaforma comune avrebbe una forza da cui nessuno potrebbe prescindere.
Un aiuto inaspettato viene dal processo che potrebbe affrontare l’ex-presidente Uribe, volto della destra più aggressiva e delle classi più abbienti, considerato l’uomo più potente e temuto del Paese. Tutto è iniziato quando Uribe ha aperto una causa contro Iván Cepeda, un senatore progressista e portavoce della grande organizzazione per i diritti umani Movice (oltre che figlio di un congressista della UP assassinato nel 1994 dai paramilitari). Da sempre Cepeda denuncia le connivenze, se non l’aperto coinvolgimento dell’ex-presidente, nelle attività dei paramilitari, considerandolo uno dei principali mandanti.
Denunciato per diffamazione da Uribe, dalle indagini che sono seguite è uscita una tale quantità di materiali per supposte frodi processuali e corruzione di testimoni che la procura ha finito per incriminare lo stesso ex-presidente. E, cosa inedita nella storia giudiziaria colombiana, la Corte Suprema ha dato il via libera al processo. Il clamore di vedere Uribe sul banco degli imputati ha suscitato un senso di panico tra le fila delle destre e ha entusiasmato i suoi avversari, sicuri che questo potrà stappare uno scandalo gigantesco.
Lui ha rinunciato al suo scranno di senatore, provando a drammatizzare la situazione. «Credo sia tempo per il Paese di sapere . Non è il momento della vendetta, neanche nei suoi confronti – ha commentato qualche giorno fa León Valencia, presidente della Fondazione Paz y Reconciliacion e uno degli analisti politici più prestigiosi – Ma è di sicuro l’opportunità per Uribe di dire la verità al Paese».
@fabiobozzato
Un’intricata matassa politica e giudiziaria mette alla prova gli accordi di pace: la Colombia vive un’ondata di omicidi contro leader sociali e attivisti dei diritti umani. E Uribe dovrà affrontare un processo per vincoli col paramilitarismo. Mentre un ex comandante delle Farc rischia l’estradizione