Da dieci giorni la Colombia è attraversata da incessanti proteste contro l'incubo della guerra interna, già raccontata su eastwest da Mario Paciolla, cooperante internazionale morto in circostanze misteriose
Da dieci giorni la Colombia è attraversata da incessanti proteste contro l’incubo della guerra interna, già raccontata su eastwest da Mario Paciolla, cooperante internazionale morto in circostanze misteriose
Da dieci giorni la Colombiaè attraversata da incessanti proteste e da una violenta repressione statale. I manifestanti chiedono un nuovo patto sociale e vogliono lasciarsi alle spalle le ferite della guerra interna, raccontata sulle colonne di questo giornale da Mario Paciolla, alias Astolfo Bergman, cooperante internazionale morto un anno fa nel sud della Colombia, in circostanze che rimangono misteriose e inquietanti.
L’innesco delle proteste lo scorso 28 aprile, quando uno sciopero nazionale ha messo con le spalle al muro il Presidente conservatore, Iván Duque, e lo ha costretto a ritirare la riforma tributaria, pomo della discordia tra Governo e manifestanti. Nonostante il passo indietro del Governo, le proteste non si sono fermate. E nemmeno la violenza delle forze dell’ordine. Nei dieci giorni di proteste, si contano 47 morti, 548 scomparsi, 12 casi di violenza sessuale e un migliaio di feriti tra civili e forze dell’ordine, secondo i dati raccolti dalla Ong Temblores.
Le manifestazioni sono state in larghissima parte pacifiche, benché non siano mancate aggressioni contro la polizia, saccheggi ai supermercati, danni al trasporto pubblico e alle banche. Il Governo ha fatto di tutta l’erba un fascio e trattato i manifestanti come teppisti da reprimere. L’ex Presidente Alvaro Uribe (2002 -2010), uomo forte della destra colombiana, ha twittato a favore dell’uso di armi da parte delle forze dell’ordine. La brutale violenza statale, in particolare dell’ESMAD – il nucleo antisommossa delle Polizia – e dei gruppi paramilitari, ha portato alla condanna unanime dell’Onu, dell’Unione europea, di numerosi Paesi e di molte Ong. In molte città del mondo si sono svolte manifestazioni in solidarietà al popolo colombiano e in difesa del diritto di manifestazione.
Conti in ordine, costi quel che costi
La riforma tributaria presentata da Duque, e dal suo partito centro-democratico di destra, fondato dall’ex Presidente Uribe, puntava a risolvere la crisi del debito che attraversa il Paese, piegato dalla pandemia. Il testo prevedeva un aumento della pressione fiscale con l’obiettivo di generare un gettito di circa 6000 milioni di dollari per risanare le finanze pubbliche ed evitare un declassamento del debito pubblico da parte delle agenzie di rating internazionali.
La riforma prevedeva alcune misure originali (esenzioni iva sugli assorbenti e reddito minimo per i ceti popolari) ma con un modello fiscale regressivo. Si prevedeva difatti un aumento e un’estensione dell’iva a nuovi prodotti, inclusi alcuni beni essenziali, come acqua ed elettricità. “Si chiede di pagare la crisi alla classe media, non a chi ha di più”, dichiara a eastwestRicardo Hincapié, sviluppatore di software e manifestante dalla città di Calì.
Calì, il centro delle violenze
È in questa città, il più importante centro economico del sud-ovest del Paese, che si sono verificati gli scontri più violenti e il maggior numero di morti. “Di giorno l’ESMAD ci reprime. Di notte se ne vanno e arrivano i paramilitari”, racconta Hincapié che ci concede questa intervista appena terminata l’assemblea dei manifestanti della Universidad del Valle, centrale di organizzazione dei manifestanti e della minga, il collettivo degli indigeni della zona, della regione Sur del Valle del Cauca. L’assemblea è stata interrotta perché gruppi armati hanno iniziato a sparare contro i manifestanti nei pressi dell’Università, racconta Hincapié. “La città è distrutta. Da giorni non si raccoglie la spazzatura, il trasporto pubblico è al collasso, i supermercati sono quasi vuoti e i prezzi aumentano, – spiega Hincapié – ma qui c’è una forte autorganizzazione, grazie a una “razza di indios coraggiosi”, i giovanissimi resistono a militari e paramilitari. E le signore del quartiere li difendono suonando le pentole (i cacerolazos, famosi in tutta l’America Latina) e portandogli cibo. È qualcosa di nuovo, mai visto prima. C’è una grande solidarietà nel quartiere”.
Una protesta diversa dal passato
Da almeno cinque anni il Paese vive cicliche ondate di proteste. Ma stavolta sembra diverso, gli effetti del Covid si fanno sentire, c’è meno paura e più disperazione. Gli assalti ai supermercati, secondo Hincapié sono atti di “disperazione di un popolo miserabile che ha toccato il fondo. Si ruba riso, uova e lenticchie perché riso, uova e lenticchie che non si possono più comprare”.
C’è poi una crescente diffidenza verso i mezzi di informazione ufficiali, in quanto “legati al potere del partito centro-democratico, al grande capitale. Non sono canali di informazione ma di propaganda. Sono passati dal sostenere il para-militarismo a creare la para-realtà”, afferma Hincapié. E prosegue: “La nostra società ha una struttura simile a quella dei tempi della colonia. Viviamo ancora nel Medioevo, non siamo mai passati al capitalismo”. Le proteste puntano il dito verso il modello sociale del Paese, denunciando i privilegi della classe imprenditoriale. E chiedono la riforma della polizia, nata nel contesto del conflitto armato che ha caratterizzato il Paese per decenni.
L’illusione della pace
Il conflitto con le Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia – FARC (1964 -2010) ha prodotto 220mila morti, di cui 177mila civili. E quasi otto milioni di sfollati. Cifra che fa della Colombia il Paese con il maggior numero di rifugiati interni al mondo.
Quando nel 2016, la guerriglia attiva più grande della regione firmò l’accordo, molti si illusero che fosse arrivata la pace. Ma da quel giorno 238 firmatari del testo sono stati uccisi. Duque, delfino politico di Uribe, sta ostacolando in ogni modo il processo di pace. Uribe era riuscito a normalizzare la violenza sulla base di un patto più o meno esplicito: uno Stato forte per garantire la sicurezza contro il nemico interno, le FARC e i narcos. Creando una guerra permanente che ha prodotto il fenomeno dei ‘’falsi positivi”: 6402 civili innocenti uccisi dall’esercito colombiano, presentati come aderenti ai narcos o alle FARC, secondo le cifre del JEP, il tribunale speciale per la pace. Oggi sappiamo che non si tratta di casi isolati, ma di una politica del Governo Uribe.
“Vogliamo pace”
La Colombia sta cambiando. L’uribismo e la sua normalizzazione della violenza ha sempre meno sostenitori. E crescono le forze alternative al potere storico dell’uribismo e delle élite del Paese, come mostra il risultato alle presidenziali del 2018 di Gustavo Petro, candidato della sinistra sconfitto al secondo turno da Duque. Cresce la domanda per un Paese libero dagli incubi della guerra interna. “Ora chiediamo la vita, prima di tutto. Questo è un Paese violento, pieno di armi e di ignoranza, vogliamo pace. E poi una nuova riforma tributaria, ma in senso progressivo. E un processo di verità di quel che è successo in questi dieci giorni, quando manifestanti pacifici sono stati schiacciati dal pugno duro di una dittatura”, conclude Hincapié.
Da dieci giorni la Colombia è attraversata da incessanti proteste contro l’incubo della guerra interna, già raccontata su eastwest da Mario Paciolla, cooperante internazionale morto in circostanze misteriose
Da dieci giorni la Colombiaè attraversata da incessanti proteste e da una violenta repressione statale. I manifestanti chiedono un nuovo patto sociale e vogliono lasciarsi alle spalle le ferite della guerra interna, raccontata sulle colonne di questo giornale da Mario Paciolla, alias Astolfo Bergman, cooperante internazionale morto un anno fa nel sud della Colombia, in circostanze che rimangono misteriose e inquietanti.
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