
Due culture millenarie, maestre nella gestione del tempo: la Cina e il Vaticano hanno optato per il dialogo e la collaborazione, scandalizzando amici e nemici.
È presto per affermare che il 22 settembre 2018 verrà ricordato come una data storica per le relazioni tra Cina e Vaticano. Il loro inedito comunicato congiunto ha comunque sollevato speranze e avviato un viatico, mentre allo stesso tempo ha generato recriminazioni sul passato e preoccupazioni sul futuro. Il documento siglato certifica la fondatezza del dialogo, riconosce i ruoli rispettivi, individua le aree di collaborazione. Non si tratta di risultati marginali, perché smentiscono forti contrapposizioni frontali. Non le consegnano alla storia, ma tendono a superarle. Esiste una reciproca acquisizione dei ruoli, questo è il dato più importante che verosimilmente spianerà la strada a relazioni formali. L’accordo prevede che il Vaticano riconoscerà i vescovi ordinati dalla Chiesa dell’Associazione Patriottica cinese – costituita da Pechino nel 1957 e controllata dal governo − e avrà un ruolo importante nella selezione delle future nomine. I due contraenti hanno così deciso di impegnarsi a collaborare. La sigla è la conclusione di un rapporto ufficioso ma intensificato di una commissione bilaterale, nata nel 2014 su indicazione di Papa Francesco e del presidente Xi Jin Ping.
La nomina dei vescovi in Cina ha rappresentato a lungo lo spigolo più difficile da ammorbidire, perché promuovere un religioso significa arrogarsi l’autorità di poterlo fare. Per la Cina è inimmaginabile che uno stato straniero eserciti questo potere sul suo territorio, una procedura etichettata come intromissione negli affari interni di un paese o addirittura come attentato alla sicurezza nazionale. Esistono dunque ancora due categorie di vescovi. La prima è espressione della Chiesa patriottica, con nomine disconosciute e scomunicate dal Vaticano; l’altra è fedele alla Chiesa di Roma, con investitura papale, ma condannata alla clandestinità. La divisione delle chiese e la contrapposizione di principio sono il retaggio del lungo dopoguerra.
Alla nascita della Repubblica Popolare Cinese, nel 1949, la Santa Sede è considerata un tentacolo dello schieramento nemico che voleva soffocare sul nascere lo Stato nato dalla Liberazione dal Giappone e dalla lunga guerra civile contro i nazionalisti di Jang Je Shi. La Guerra Fredda, iniziata l’anno successivo con il conflitto coreano, cementava un’appartenenza ideologica che non ammetteva deroghe. In quel tempo, l’asprezza del conflitto imponeva posizioni drastiche e dolorose. Erano tutte causa ed effetto contemporaneamente della nuova situazione. La rottura delle relazioni diplomatiche nel 1951 era il preludio a scontri sempre più estesi. Pechino non esitava a espellere preti e missionari, a chiudere le chiese, a confiscare i beni, a imprigionare chi resisteva. Dopo l’espulsione del Nunzio apostolico nel 1952, la nascita della Chiesa Patriottica ha sigillato il controllo dello stato. Il Vaticano non ha arretrato nella propaganda anticomunista, e nel mantenimento dell’esclusiva identità cattolico-romana. Il riconoscimento di Taiwan come unico e legittimo rappresentante della Cina ne è stata una conseguenza. Ancora oggi il Vaticano persiste in questa bizzarria diplomatica e mantiene il suo ambasciatore a Taipei. Esisteva infine in Cina un’avversione non solo politica ma nazionalista. Il cristianesimo era stato imposto – seppure con scarsi risultati – dagli stranieri. Erano tali gli invasori, i soldati, i commercianti, gli ambasciatori che avevano semi-colonizzato la Cina, imponendole un mai dimenticato “secolo delle umiliazioni” e forzandola ad accettare le missioni e le conversioni al cattolicesimo nel celeste Impero. Quando la Liberazione è stata conquistata, nel risentimento collettivo verso l’oppressione era sottile la differenza tra Bibbie e baionette.
L’accordo di settembre ambisce al tramonto di questi decenni di lutti, repressione, propaganda, interferenza. Per il momento ha sancito una speranza, perché molti punti rimangono indefiniti. Non è stato firmato dal Segretario di Stato e dal ministro degli esteri cinese – ma dai loro delegati con il rango di vice ministro − è definito provvisorio e soggetto a verifiche nel comunicato congiunto, non ne sono stati diffusi i contenuti in dettaglio. Tuttavia, se i negoziati proseguiranno, la chiesa clandestina potrà emergere, i suoi fedeli non più convivere con il rischio, i sacerdoti potranno uscire dall’ombra o dalle prigioni. Allo stesso tempo, la chiesa patriottica avrà l’imprimatur da Roma; il riconoscimento del suo ruolo non potrà che attrarre altri cattolici. In prospettiva si immaginano il riconoscimento diplomatico e l’unificazione delle 2 chiese. In questo caso, Pechino manterrebbe il suo controllo, il Vaticano vedrebbe riconosciuto il suo ruolo, la libertà di culto sarebbe regolata ma sostanzialmente libera, la nomina dei vescovi congiunta. Secondo il Segretario di Stato Pietro Parolin, “per la prima volta tutti i vescovi in Cina sono in comunione con il Vescovo di Roma”.
L’opposizione più loquace all’accordo si leva all’interno della stessa chiesa cattolica. Gli ambienti più conservatori hanno espresso critiche e il Cardinale Zen – ex vescovo di Hong Kong – ha esposto le sue posizioni con la tradizionale schiettezza. La sua fiducia nell’evoluzione democratica della Cina è inesistente, così come quella sull’affidabilità dei suoi governanti. Ricorda i carri armati cinesi a Tian An Men e la repressione di ogni dissenso. Sostiene sempre che ogni tregua con Pechino sarebbe un tradimento del martirio dei cattolici e di quelli che hanno resistito nella clandestinità. Difensore della democrazia nell’ex colonia britannica sostiene che la chiesa non deve firmare patti con i dittatori.
Il cardinale Zen e gli altri oppositori di papa Bergoglio – probabilmente più numerosi di quanto traspaia – sono coerenti con il loro passato, ma non riescono a liberarsene, né intendono farlo. Il terreno negoziale è infatti nettamente cambiato a favore della Cina. I suoi progressi sono spettacolari; soprattutto il peso che ha acquisito nello scacchiere internazionale la rende protagonista di ogni agenda politica. Nessuna cancelleria occidentale immaginerebbe di inimicarsi la Cina per la condizione di una minoranza religiosa. Inoltre, Taiwan ha ormai relazioni soltanto con un pugno di staterelli attratti dai suoi investimenti. Nessun paese disconosce che la Cina sia una e indivisibile, con capitale Pechino. Congiuntamente, le relazioni economiche tra la Cina e l’isola ribelle sono eccellenti. Infine, le dimensioni della chiesa cattolica in Cina sono ridotte. I fedeli sono stimati complessivamente tra 10/12 milioni. Le chiese protestanti, fino al 1949 largamente minoritarie, raggruppano oggi circa 60 milioni di persone, avendo registrato un proselitismo impressionante. Anche la vecchia separazione delle due chiese cattoliche (patriottica e clandestina) tende a sbiadire. Le pratiche religiose sono comuni, così come i sacerdoti officianti. Spesso le autorità favoriscono l’espansione di un’uguale identità, per arrivare a una fusione de facto. Gli ultimi vescovi sono stati nominati con una procedura grigia di gradimento congiunto. Anche la divisione netta dunque volge al tramonto.
Le leve negoziali cinesi sono certamente più potenti di quelle vaticane. Ai critici dell’accordo non rimane che l’orgoglio identitario del proprio passato o l’occasione cinese per indebolire papa Francesco. Due culture millenarie, abituate con maestria a gestire il tempo, hanno compreso che il suo scorrere non è neutro. Questa volta ha spostato l’ago della bilancia a favore di Pechino, suggerendo una soluzione intelligente e lungimirante, l’unica possibile prima che i rapporti diventino ancor più sbilanciati da non consentire nessuna utilità al dialogo per chi ha maggiore potenza.
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Due culture millenarie, maestre nella gestione del tempo: la Cina e il Vaticano hanno optato per il dialogo e la collaborazione, scandalizzando amici e nemici.