
Per Cameron i referendum sono due: sulla sua leadership tra i Tories e sul suo carisma di Primo Ministro. Di mezzo c’è il destino dell’Europa.
Di lui, scherzando, dicono che ha due modi operandi: l’autocompiacimento e il panico. È opinione diffusa che David Cameron dia il meglio di sé nel secondo. E mentre si prepara al referendum sull’Ue del 23 giugno, il Primo ministro britannico sembra finalmente preoccuparsi. Nei mesi scorsi Cameron si è impegnato su tre fronti: la rinegoziazione dell’adesione all’Ue con Bruxelles e gli altri Stati membri, il conflitto interno al suo partito a Westminster, e il referendum nel Regno Unito. Più o meno risolti i primi due, si concentra sul terzo fronte. Il Governo inglese ha cercato di dare nuovo impulso al dibattito per l’incontro del Consiglio europeo di fine febbraio. Secondo l’argomentazione britannica, piuttosto che un trattamento speciale, il Regno Unito aspira a una riforma complessiva dell’Ue che giovi a tutti gli Stati membri. Ma gli altri Stati hanno sentimenti contrastanti a riguardo e il Primo ministro cammina sul filo del rasoio.
L’eccezione britannica preoccupa alcuni, si teme un precedente populista per cui ogni Stato membro possa esigere un trattamento speciale ricorrendo al referendum. Molti si sono allarmati quando Marine Le Pen ha dichiarato che, se eletta, avrebbe seguito l’esempio britannico. Altri paventano riforme che potrebbero rendere l’Ue troppo british. A differenza dei protocolli precedenti (Irlanda e Danimarca), si teme che l’accordo britannico venga esteso a tutti. I paesi integrazionisti sono inquieti per la proposta di rafforzare il ruolo dei parlamenti nazionali e modificare l’espressione “un’unione sempre più stretta”, che perderebbe la sua forza legale se non fosse applicata universalmente.
Il secondo fronte di battaglia è interno al partito di Cameron. Nel Partito conservatore e unionista è in atto da tempo una guerra rispetto alla posizione nei confronti dell’Europa, un conflitto che colpisce al cuore la coalizione di destra tra capitalisti internazionalisti e nazionalisti campanilisti formata da Lord Salsbury oltre un secolo fa. Cameron ha cercato di tenere insieme i due schieramenti e ha indetto il referendum proprio per evitare che il Partito si spaccasse completamente.
Con il referendum che si avvicina, è giunto il momento di decidere da che parte stare. Cameron deve guadagnarsi il sostegno di molte figure di spicco nel suo gabinetto, ma anche dei parlamentari di secondo piano. Il governo è per lo più dalla sua parte: su 30 membri solo 6 sono a favore della Brexit. A parte il Ministro della Giustizia Michael Gove, il partito pro Brexit è piuttosto fiacco. Le luci sono puntate su due illustri elettori: il Segretario di Stato per gli Affari Interni Theresa May e il sindaco di Londra Boris Johnson. Questi due pezzi grossi giocheranno un ruolo chiave per l’orientamento della base conservatrice. Cameron è riuscito a trascinare May dalla sua parte, ma non a guadagnare l’appoggio di Johnson. Figura carismatica con una capacità straordinaria di parlare alla gente, è poco probabile che Johnson riesca a rassicurare l’opinione pubblica presentando una chiara strategia per l’uscita dall’Ue. La sua posizione appare inoltre sospetta poiché più volte in passato si è detto contrario alla Brexit. Questa inversione di rotta può apparire motivata dal suo interesse a diventare Primo ministro più che da genuina convinzione.
Ma il fronte più impegnativo e finora trascurato è l’opinione pubblica britannica. Saranno i cittadini a determinare l’esito del referendum. Come voteranno?
I Britannici sono più o meno divisi in tre gruppi: eurofobici, pro Europa e indecisi. Gli euroscettici hanno dato una rappresentazione distorta del dibattito come di un conflitto tra élite contrarie e cittadini a favore della Brexit, ma in verità la popolazione non è così euroscettica. Sono le élite a promuovere questa versione dei fatti. Johnson ha frequentato la stessa scuola di Cameron, l’ultra-elitaria Eton, e la maggior parte dei finanziamenti per la campagna del “No all’Ue” provengono da hedge funds piuttosto che da singoli donatori.
Molti elettori indecisi sono avversi ad alcuni risvolti della globalizzazione e dell’integrazione europea quali la libera circolazione dei lavoratori, l’aumento della concorrenza e la sensazione d’impotenza del Governo di fronte a questi trend allarmanti.
Il cuore del dibattito sarà all’interno di due argomentazioni opposte. Gli euroscettici propugneranno l’idea che la Gran Bretagna possa riprendersi il controllo delle frontiere lasciando l’Ue. I pro Europa sosterranno che la cosa migliore sia affrontare queste questioni da una posizione di forza, e che all’interno dell’Ue la Gran Bretagna è più forte economicamente, così come dal punto di vista della sicurezza e della sua influenza nel mondo. Il controllo promesso dagli euroscettici, ribattono i pro Europa, è una mera illusione.
Ma soprattutto sottolineano il fatto che la fazione anti Europa non ha predisposto alcun piano che regoli i rapporti tra Gran Bretagna e Ue in caso di uscita dall’Unione. Manca una posizione comune all’interno del partito pro Brexit sull’accesso al Mercato unico, o su come gestire l’immigrazione e il controllo delle frontiere. La campagna pro Europa è convinta che la strada da seguire consista nel rimarcare come – a meno di 20 settimane dal referendum – non sia stata ancora fornita un’immagine credibile di una Gran Bretagna fuori dall’Ue. Cameron sembra intenzionato a rilanciare incessantemente quest’offensiva, infondendo la paura dell’ignoto nei cuori degli elettori indecisi.
Lo Spectator annuncia il ritorno del “Progetto Paura”: un po’ come nel caso della Scozia, i sostenitori dell’Unione denunceranno le contraddizioni e le incongruenze degli scettici. L’indebolimento della sicurezza e dell’economia nazionale è uno dei rischi associati alla Brexit. Cameron ha sottolineato i rischi geopolitici dell’uscita dall’Ue e, in generale, quanto sia pericoloso muoversi da soli in un mondo insidioso e incerto. L’uscita della Gran Bretagna dall’Ue è ciò che vogliono Putin e Abu Bakr al-Baghdadi, dà a intendere.
Cameron spera che la sua campagna riesca a portare la maggioranza dalla sua parte poiché l’opinione pubblica britannica è tradizionalmente conservatrice e non sarà disposta a fare un salto nel vuoto. Il fatto che i fautori della Brexit siano sprovvisti di un piano concreto, così come la mancanza di voci serie e credibili in campo economico e per quanto riguarda le questioni di sicurezza nazionale, non fanno che accrescere il senso d’incertezza. In circostanze politiche normali questa sarebbe una teoria convincente, ma visto il successo di partiti populisti come Syriza in Grecia e Podemos in Spagna, l’elezione di Jeremy Corbyn al Partito laburista e l’ascesa di Donald Trump alle primarie Usa, i fautori della Brexit sperano che l’ondata anti-élite che sta investendo il mondo si abbatta anche sulle coste britanniche.
Cameron ha pertanto smesso di gongolarsi e si è fatto serio su tutti e tre i fronti. Era ora: stando agli ultimi sondaggi, il 50% dei Britannici potrebbe dire sì alla Brexit.
Per Cameron i referendum sono due: sulla sua leadership tra i Tories e sul suo carisma di Primo Ministro. Di mezzo c’è il destino dell’Europa.