Le interpretazioni del voto e della vittoria in India di Narendra Modi si sprecano, andando a pescare a casaccio nella mitologia politica tipica dell’Occidente: ci piacciono le storie di scalata sociale, dell’uomo che si fa da solo, la balla dell’India simbolo di una classe media western friendly. Vista da qui, la Modi Wave è proprio un’altra cosa.

L’attacco più significativo e “acchiappalettore” sulla stampa italiana si riferisce alle umili origini di Narendra Modi, ex chief minister dello stato del Gujarat, proveniente da una famiglia di chaiwalla, venditori di té. La favola del self-made man è stata uno dei punti di forza di questa campagna elettorale ideata, secondo le indiscrezioni, da un team di strateghi vicini alla Apco, gruppo lobbystico statunitense.
I temi e i modi della campagna elettorale, infatti, all’esterno hanno ricalcato lo showbiz di stampo statunitense: spettacoli in 3D, uso estenuante dei social network, culto della personalità e personalizzazione dello scontro a discapito della retorica partitica di vecchio stampo – che il Congress, sbagliando, ha continuato ad utilizzare. Modi è risultato quindi essere una sorta di “uomo nuovo”, un personaggio dalle caratteristiche messianiche arrivato con la potenza di un’ondata – wave o tsunami i due termini più ricorrenti – a spazzare via il vecchio immobilismo corrotto rappresentato dalla dinastia Nehru-Gandhi.
L’ondata effettivamente si è abbattuta sulla politica nazionale, col Bjp che si porta a casa da solo la maggioranza assoluta in parlamento (282 seggi, ne servivano 273 per la maggioranza), ma descrivere la spettacolare vittoria di Modi con la favola dell’eroe di umili origini che vince il favore delle masse è un pericoloso abbaglio.
Narendra Modi, 63 anni, milita all’interno della Rashtrya Swayamsevak Sangh (Rss) da quando di anni ne aveva 8: al di là dell’imprinting al banchetto del té, la sua intera formazione politica si è svolta all’interno delle shakha della Rss – che sono questa cosa qui – scalando dall’interno prima la gerarchia del gruppo paramilitare estremista hindu, poi quella del Bjp.
Nella più limpida analisi della vittoria di Modi uscita sui media internazionali – seppur pomposa e impegnativa, leggetela tutta – lo scrittore Pankaj Mishra, per il Guardian, sottolinea alcuni eventi rilevanti della carriera politica del giovane Modi, riconoscendolo al fianco di LK Advani nella marcia del 1991 che segnò l’inizio della campagna d’odio antimusulmano sfociata nella distruzione della moschea Babri in Uttar Pradesh (e conseguenti pogrom anti-islam in tutto il paese); oppure, sempre agli inizio degli anni Novanta, tra il manipolo di “arditi” del Bjp in missione nel Kashmir per sedare le rivolte indipendentiste (o meglio, una baracconata nazionalpopolare con tanto di tricolore indiano issato nel mezzo di un territorio martoriato dalla guerra civile e dagli scontri tra musulmani e hindu).
Il presunto outsider ha la fama di uomo nuovo solo per chi non l’ha mai sentito nominare: diventa uno degli interlocutori del Bjp, selezionato dai piani alti della Rss, nel 1985; nel 1988 viene nominato segretario organizzativo del Bjp in Gujarat, coordina le campagne elettorali nello stato nel 1995 e, vincendo le elezioni, viene promosso a rango di dirigente nazionale, spedito a New Delhi a gestire le attività del partito per l’Haryana e l’Himachal Pradesh. Nel 1998 entra a far parte della cerchia ristretta dei segretari generali del Bjp, vince poi le elezioni in Gujarat del 2001 e rivince nel 2002, nonostante le controversie dei pogrom anti-musulmani dello stesso anno (i fatti di Godra, figli del movimento per la costruzione del tempio di Ram ad Ayodhya): anzi, grazie alla politica del divide et impera, soffiando sul fuoco dell’odio interreligioso e con 2000 morti sulla coscienza, Modi si aggiudicherà 127 seggi su 182.
Mentre il volto nuovo di Modi campeggiava su cartelloni e passaggi tv dedicati alla sua vision, quel modello Gujarat basato sul vikas (sviluppo) superato da altri modelli più efficaci come in Tamil Nadu e in Kerala, nelle sacche dell’elettorato rurale della cosiddetta hindi belt (gli stati dell’India centro-settentrionale dove il Bjp – e le propaggini neofasciste della Sangh – sono preponderanti), nel silenzio dei media i quadri del partito hindu hanno continuato a portare avanti la tradizionale campagna elettorale con caratteristiche indiane: alleanze con politicanti locali legati ai potentati di base castale, religiosa.
Sviluppo e grandeur indiana per le “isole di California” dell’India urbana, gocce di progresso nell’Oceano di arretratezza del resto dell’India (quasi l’80 per cento del territorio); propaganda a misura di aam aadmi (uomo comune, in hindi) per il resto dell'”Africa sub-sahariana”, parafrasando una felicissima metafora dell’India dell’economista Amartya Sen.
Più che uomo di rottura e simbolo delle caste arretrate, Modi ha vinto le elezioni vendendo all’elettorato indiano una gamma di promesse difficili da mantenere, approfittando – da politico acuto e di razza quale è – della debolezza comunicativa di un Congress schiacciato dagli scandali e da una locomotiva indiana vittima di colossali errori sistemici (mancanza di infrastrutture, puntare tutto sul terziario hi-tech tralasciando agricoltura e secondario, in particolare), fragile sotto i colpi della crisi economica globale.
Modi ha vinto presentandosi come un uomo solo al comando ad un elettorato stanco e, in gran parte, giovanissimo, comprensibilmente più attratto dall’irruenza del Messia gujarati, abile nel raccontare un’India che non esiste (ancora?), che dalla pacatezza burocratica dell’economista ottuagenario Manmohan Singh. Una tendenza che si ripete nella storia indiana, dallo stesso Nehru passando per la lady di ferro Indira Gandhi, fino ai vari “signorotti” dei partiti locali di oggi (le “tre parche” Mamata, Mayawati e Jayalalithaa; Mulayam Singh Yadav in Up, Patnaik in Orissa, la dinastia Thackeray tra i neofascisti del Shiv Sena in Maharashtra…).
Il Modi primo ministro risulta ancora un’incognita, sostanzialmente perché in questa campagna elettorale non si è parlato di temi politici, di ideologie: è stato un Modi contro tutti, e Modi ha stravinto.
Nell’attesa della nomina dei ministri (dalla quale si avrà un primo indizio su che tipo di mandato NaMo vorrà guidare), l’unica vera rottura è rappresentata da una destra mai così forte nel paese, al bivio tra una maturazione a potenza politica inclusiva o il proseguimento della politica settaria e oscurantista portata avanti negli anni.
Per il momento risparmiateci la retorica del “figlio del chaiwalla”: Modi è il frutto della più classica scalata all’interno del partito, fatta di intrighi, lobbying, tradimenti, sotterfugi e scheletri nell’armadio.
Le interpretazioni del voto e della vittoria in India di Narendra Modi si sprecano, andando a pescare a casaccio nella mitologia politica tipica dell’Occidente: ci piacciono le storie di scalata sociale, dell’uomo che si fa da solo, la balla dell’India simbolo di una classe media western friendly. Vista da qui, la Modi Wave è proprio un’altra cosa.