Sono bastati trenta minuti di conferenza stampa per porre fine al terzo governo Netanyahu. Martedì sera il primo ministro israeliano ha annunciato la rimozione dal governo dei ministri dell’economia Yair Lapid e della giustizia Tzipi Livni, e affermato la propria intenzione a sciogliere la Knesset e indire nuove elezioni politiche.

Due ore dopo si sono dimessi anche gli altri quattro ministri legati al partito dell’ex giornalista Lapid e ieri è giunta l’ufficializzazione della crisi di governo: le elezioni si terranno il prossimo 17 Marzo e il parlamento si scioglierà a breve. In Israele è nuovamente campagna elettorale.
“Non mi è possibile governare il paese se i ministri Lapid e Livni attaccano il governo dall’interno”, ha dichiarato Netanyahu in diretta televisiva nazionale, annunciando il ritorno alle urne e invitando gli israeliani a dargli la forza elettorale necessaria a governare il paese senza dover formare un ennesimo governo di coalizione tra partiti politici non omogenei.
Ed è proprio su un’alleanza di questo tipo che il terzo esecutivo Netanyahu era stato formato nel marzo del 2013, con un accordo pragmatico più che programmatico, tra Likud, Yisrael Beitenu, HaBayt HaYehudi, Yesh Atid e HaTnuah.
Partiti conservatori, nazionalisti e di destra i primi tre, moderati e centristi gli altri, per un governo di centro-destra che si è trovato spesso in contraddizioni interne. Se lo scontro tra le due diverse anime politiche si è espresso su numerose questioni – economia, negoziato di pace con i palestinesi, Gaza, rapporto tra laici e religiosi, Iran nucleare – pare che la goccia che ha fatto traboccare il vaso sia stata la proposta di legge sullo Stato nazionale ebraico, approvata dal governo e in attesa del voto del parlamento.
La proposta punta ad affermare il carattere ebraico dello Stato di Israele sia dal punto di vista nominale, come Stato degli ebrei, che da quello tangibile, con l’ebraico unica lingua ufficiale del paese e con istituzioni pubbliche chiamate a funzionare tenendo sempre in considerazione le norme religiose e tradizionali ebraiche.
Il progetto di legge è appoggiato dai partiti di Netanyahu, Lieberman e Bennett, ma è fortemente osteggiato dalle formazioni di centro-sinistra e da quelle arabe, convinte che una legge di questo tipo farebbe pesare più il carattere ebraico che quello democratico dello Stato, minando i diritti fondamentali delle minoranze religiose presenti nel paese.
È assai probabile che Netanyahu, stanco di guidare un governo basato sul compromesso con i partiti centristi, abbia usato il progetto di legge per causare una crisi di governo, andare a nuove elezioni e formare un esecutivo di destra composto da partner politici più vicini al Likud – sostituendo Yesh Atid e HaTnuah con i due partiti religiosi Shas e Unione Torah Ebraismo.
A confermare questa ipotesi ci sarebbe l’occhiolino strizzato da Netanyahu ai partiti religiosi in una recente intervista in cui, toccando uno dei temi più delicati per le comunità di ebrei ultra-ortodossi in Israele, si è dichiarato contrario al carcere per gli haredim che studiano la Torah e che si rifiutano di servire l’esercito.
Secondo i recenti sondaggi effettuati dai canali TV più importanti del paese, Channel 2 e Channel 10, se oggi si andasse a votare, il blocco delle destre crescerebbe il necessario a garantire a Netanyahu la formazione del suo quarto governo – in tal caso un esecutivo privo di elementi moderati come quello del 1996.
Se la sinistra rimane indietro nei sondaggi, l’indebolimento dei partiti centristi a favore della destra sarebbe favorito non solo dalle mancate riforme economiche e sociali (come abbassare il costo della vita e ridurre i privilegi degli haredim, gli ebrei ultra-ortodossi) promesse nella scorsa campagna elettorale, ma anche dal clima di tensione, violenza e contrapposizione ideologica che dalla scorsa estate caratterizza il paese e che darebbe linfa ai falchi della scena politica israeliana.
Rimane la questione palestinese. Vent’anni dopo gli Accordi di Oslo, il processo di pace è bloccato. La destra israeliana accusa Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), di non essere un partner di pace e di incitare all’odio e agli attentati terroristici.
Messo al muro dalla crescente forza politica del rivale Hamas, dall’intransigenza del governo Netanyahu, dall’espansione delle colonie in Cisgiordania e dalle recenti provocazioni alla Spianata delle Moschee a Gerusalemme, ad Abbas non rimane che la Comunità Internazionale.
In questi mesi sempre più assemblee parlamentari europee hanno riconosciuto l’esistenza dello Stato palestinese e adesso, pur di pressare gli israeliani a sedersi al tavolo negoziale, Abbas minaccia non solo di voler bloccare la collaborazione con Israele sulla sicurezza, ma anche di rivolgersi al Consiglio di Sicurezza dell’ONU per una risoluzione che punti a porre fine all’occupazione israeliana in Cisgiordania entro Novembre 2016.
Allargando la prospettiva sulla regione, se il Segretario di Stato USA John Kerry si augura la formazione di un governo in grado di riprendere il negoziato di pace con i palestinesi, la rottura tra Netanyahu e i ministri Lapid e Livni ha un forte valore simbolico sia per la questione palestinese sia per quella dell’Iran nucleare. In entrambi i casi, infatti, Yesh Atid e HaTnuah erano gli unici partiti di governo in grado di spingere Netanyahu a negoziare con Abbas e a sostenere lo sforzo diplomatico statunitense sull’Iran nucleare.
Senza questi due elementi di moderazione, il governo che Netanyahu potrebbe formare, qualora i risultati delle prossime elezioni corrispondessero ai sondaggi, potrebbe verosimilmente insistere sul rafforzamento dell’identità ebraica dello Stato, incrementare la presenza israeliana in Cisgiordania e a Gerusalemme Est e convincere la comunità internazionale a mantenere sul tavolo ogni possibile strumento, anche l’intervento armato, per fermare il programma nucleare iraniano.
@alexdimaio
Sono bastati trenta minuti di conferenza stampa per porre fine al terzo governo Netanyahu. Martedì sera il primo ministro israeliano ha annunciato la rimozione dal governo dei ministri dell’economia Yair Lapid e della giustizia Tzipi Livni, e affermato la propria intenzione a sciogliere la Knesset e indire nuove elezioni politiche.