ChinaLeaks: ovvero come spiegare i tanti sospetti che da sempre spingono a credere che i ricchi cinesi, compresi i politici, portino i proprio soldi all’estero. Niente di illegale, ma un dato politico ed economico che pare destinato a creare un terremoto all’interno della leadership cinese e del mondo dell’imprenditoria. Sempre che qualche cinese – prima o poi – possa accorgersene.
Nel giorno in cui Xu Zhiyong, 40 anni, avvocato e membro fondatore del Movimento nuovi cittadini è stato processato a Pechino, un’inchiesta straordinaria ha rivelato che la maggior parte dei leader cinesi e gli imprenditori più in vista della Cina, da tempo depositano ricchezze e patrimoni su conti correnti nelle banche dei paradisi fiscali.
Xu da tempo richiedeva una vera lotta alla corruzione e più di tutto la pubblicazione dei patrimoni dei funzionari cinesi, sapendo così raccogliere ampio seguito, come dimostrato dai tanti attivisti presenti fuori dal tribunale pechinese (nella foto reuters). La risposta dei miliardari cinesi è stata la repressione e il tentativo di trafugare le proprie ricchezze in luoghi distanti da occhi indiscreti, almeno fino a ieri.
In realtà non c’è niente di illegale nei files rivelati dall’imponente lavoro (iniziato nel 2012) del gruppo di giornalisti investigativi dell’International Consortium of Investigative Journalists, network globale del Center for Public Integrity (Icij) Usa, ma è chiaro che il colpo all’immagine di una dirigenza incaponita nella nota campagna anti corruzione contro «le mosche e le tigri» non può che avere un’eco politica di livello mondiale. In Cina in questi giorni si fanno i conti di quanto la politica di frugalità del presidente Xi Jinping avrebbe cambiato i modi di celebrare il capodanno da parte dei funzionari: meno banchetti, meno regali costosi, meno mazzette per ricordare gli appalti che partiranno nell’anno del cavallo.
Quanto viene rivelato dai media che hanno pubblicato l’inchiesta, Le Monde e il Guardian, mostra invece che proprio Xi Jinping, il numero uno e principale promotore della lotta alla corruzione (ricordata in ogni sua uscita e documento pubblico) avrebbe il cognato impegnato in una frenetica organizzazioni di fuga dei capitali all’estero (Isole Vergini o Samoa, ad esempio). Non è una grande novità da un punto di vista generale: sono anni che si ritiene che dalla Cina, compresa Taiwan e Hong Kong, ci sia un flusso di capitali verso l’estero imponente.
Diverso è poter utilizzare 2milioni e mezzo di leaks – incrociando nomi e dati – che dimostrano l’esattezza di questo sospetto. E ancora più grave sarebbe il fatto che proprio chi propaganda il Nuovo Sogno cinese, sembra crederci ben poco se è vero che questa fuga di soldi dipende dal tentativo di premunirsi contro eventuali disastri finanziari ed economici del proprio paese.
C’è di più naturalmente. Un anno e mezzo fa Bloomberg osò indagare le ricchezze di quello che all’epoca era ancora il candidato alla presidenza cinese, dimostrando la piramide economiche che reggeva l’impero milionario di Xi Jinping. Poco dopo fu la volta del New York Times dimostrare con un’inchiesta che gli è valsa il Pulitzer, gli intrighi finanziari ed economici dell’ex premier Wen Jiabao. Sintomi di una vicinanza a materiale in grado di essere elaborato da qualche esperto cinese, in collaborazione con i giornalisti occidentali, a confermare da un lato un nuovo modo di fare giornalismo ingestigativo, in network, dall’altro la vulnerabilità di questi «segreti» dei politici cinesi.

Cè infine – a livello di considerazioni generale – un ultimo punto: si tratta di uno scandalo che presumibilmente interesserà per lo più gli addetti ai lavoro, chi si occupa di Cina o è interessato a quanto accade in quel paese. Da un lato infatti, rispetto a scandali americani, ci sarà meno attenzione mediatica, dall’altro il governo e i funzionari cinesi nono saranno certo disposti a reagire pubblicamente. Per ora, come capitò a Bloomberg e New York Times, hanno oscurato Le Monde e il Guardian e dato l’ordine ai propri media di non parlare dell’inchiesta denominata China Leaks.
Come al solito, però, ci sarà da capire che tipo di rimescolamenti politici, se ci saranno, saranno provocati all’interno del Partito dalla fuoriuscita di queste informazioni, che si sarebbe potuto supporre fossero decisamente segrete.
L’inchiesta rivela che ci sarebbero almeno 100mila aziende domiciliate in 10 giurisdizioni offshore; 37mila cittadini tra Cina, Hong Kong e Taiwan si sarebbero serviti dei servizi delle principali banche internazionali (Ubs, Credit Suisse e Deutsche Bank) per depositare le proprie ricchezze su conti segreti. A essere tirati in ballo parecchi personaggi in vista dell’estabilishment: dall’ex premier Wen Jiabao, ancora lui, con i due figli citati nell’inchiesta. Perfino un discendente di Deng Xiaoping, sarebbe uno dei protagonisti della creazioni dei paradisi miliardari off shore, così come parenti di Li Peng, dell’ex presidente Hu Jintao. Non mancano imprenditori, come i fondatori del gigante internet Tencent (Ma Huateng e Zhang Zhihong) e la miliardaria Zhang Xin, fondatrice dell’azienda che domina il settore del mattone cinese, la Soho.
L’inchiesta insiste sullo stesso tasto: il partito comunista e l’attuale classe imprenditoriale cinese costituiscono ormai un nucleo indissolubile, oligarchico, legato a doppio filo e che ormai si è sostituito completamente allo Stato.
ChinaLeaks: ovvero come spiegare i tanti sospetti che da sempre spingono a credere che i ricchi cinesi, compresi i politici, portino i proprio soldi all’estero. Niente di illegale, ma un dato politico ed economico che pare destinato a creare un terremoto all’interno della leadership cinese e del mondo dell’imprenditoria. Sempre che qualche cinese – prima o poi – possa accorgersene.