
Esercitare il diritto di iniziativa contribuisce a creare quel demos europeo, senza il quale l’Unione europea non potrà mai essere davvero democratica.
Doveva essere uno strumento per la partecipazione diretta alla vita democratica dell’Unione europea, ma a sei anni dalla sua entrata in vigore, ci si domanda se il cosiddetto ‘diritto d’iniziativa’ sia davvero alla portata di tutti.
Introdotto dal Trattato di Lisbona, questo diritto prevede la possibilità di chiedere alla Commissione europea di fare una proposta di legge su una materia d’interesse generale attraverso la raccolta di un milione di firme.
Furono l’Italia e l’Austria, nel 1996, a lanciare l’idea di un’iniziativa popolare sul modello del referendum abrogativo. A quel tempo, però, non c’era l’accordo degli altri paesi. L’idea fu rilanciata nel 2003 durante la redazione della costituzione europea e venne difesa dalle organizzazioni della società civile. Ma questa volta furono i cittadini francesi e olandesi a fermarne il percorso con la bocciatura tramite referendum del trattato costituzionale. Il diritto d’iniziativa tuttavia si salvò e venne incluso nel Trattato di Lisbona del 2007, diventando finalmente operativo nel 2012.
Come funziona? Per chiedere una proposta di legge alla Commissione europea servono un milione di firme. Il primo passo consiste nel mettere insieme un comitato che presenti l’idea formato da 7 persone in altrettanti paesi Ue. La Commissione quindi decide se accettare l’iniziativa sulla base dei requisiti legali. Le proposte, in particolare, non possono trattare qualsiasi tema, ma devono rientrare nelle competenze dell’esecutivo di Bruxelles. Se tutto va bene, l’iniziativa viene pubblicata e la raccolta firme può iniziare. C’è un anno di tempo per ottenere un milione di consensi in almeno un quarto dei paesi dell’Unione europea (7), per ognuno dei quali è stabilita una soglia minima di firme. Gli organizzatori devono poi far validare le firme dalle autorità nazionali, passarle a Bruxelles e quando tutto è in regola, la Commissione europea decide il seguito.
Finora le iniziative lanciate sono state 70, 22 sono state respinte perché esulavano dalle competenze della Commissione, 14 sono state ritirate dagli stessi organizzatori e solo 4 hanno raccolto più di un milione di consensi. Quanto al seguito, nessuna ha dato origine a un atto legislativo.
La prima petizione ad aver raggiunto il quorum è stata quella contro la privatizzazione dell’acqua. L’iniziativa Right2Water chiedeva il riconoscimento del diritto all’acqua potabile come un diritto universale, ma la Commissione si è limitata a proporne un migliore accesso nella revisione della direttiva in materia. Dopo la petizione contro la vivisezione, un’altra ad aver ottenuto il milione di firme, la Commissione Ue ha affermato che l’azione dovrebbe concentrarsi piuttosto sulla ricerca di tecniche alternative. A seguito dell’iniziativa che chiedeva lo stop dei finanziamenti Ue ad attività di ricerca che comportassero la distruzione di embrioni umani, la Commissione ha ritenuto di non dover modificare i provvedimenti esistenti. E in risposta all’iniziativa che chiedeva di vietare il glifosato, un erbicida che gli organizzatori ritengono pericoloso per la salute, la Commissione ha comunque esteso l’approvazione della sostanza per 5 anni, ma si è impegnata a migliorare la trasparenza e la qualità delle valutazioni scientifiche alla base di queste decisioni.
Con tali risultati ci si domanda se il diritto d’iniziativa sia all’altezza dell’aspettativa di avvicinare l’Europa ai cittadini. Lo strumento richiede un’organizzazione su scala continentale e un certo investimento. La procedura è complicata: la raccolta di dati personali per verificare l’identità dei firmatari, ad esempio, rappresenta sia un onere amministrativo per gli organizzatori sia un disincentivo a partecipare per i sostenitori. La tempistica delle risposte lascia di fatto meno di 12 mesi per raggiungere il quorum di firme. E tutto ciò senza garanzia di risultato. Non sorprende che negli anni il numero delle iniziative sia andato calando.
Ma il quadro non è solo negativo. In uno studio, Maximilian Conrad, dell’Università dell’Islanda, ha osservato che il diritto d’iniziativa dell’Ue è il primo strumento di partecipazione diretta che superi i confini nazionali. Il suo esercizio richiede una mobilitazione a livello locale, regionale, nazionale ed europeo e ciò contribuisce a creare quel ‘popolo’, il demos europeo, senza il quale l’Ue non potrà mai essere davvero democratica. L’iniziativa contro la vivisezione, nota Conrad, è partita da gruppi animalisti attivi principalmente in Italia, ma è riuscita a estendere la base di supporto combinando eventi a livello locale e mobilitazione ad ampio raggio sui social media.
Andreas Bieler dell’Università di Nottingham ha studiato l’iniziativa sul diritto all’acqua. In questo caso, osserva, l’alleanza di sindacati, movimenti sociali e organizzazioni ambientaliste sotto il coordinamento della Federazione sindacale europea dei servizi pubblici (European Federation of Public Service Unions), è stata un successo. Acqua e ambiente, d’altra parte, sono temi transnazionali per definizione e c’è una lunga storia di lotte in questo campo. La questione della ri-municipalizzazione dei servizi idrici, inoltre, è stata per anni tema di dibattito in Europa, da Parigi a Berlino passando per il referendum italiano del 2011. Molti quindi hanno potuto identificarsi con gli obiettivi della petizione.
Guardando ai risultati al di là della risposta Ue, Bieler sostiene che la raccolta di firme sia riuscita a cambiare i toni del dibattito sull’acqua, a creare solidarietà attraverso i confini e ad influenzare leggi nazionali. La Lituania, per esempio, ha modificato la legge sulla gestione delle acque vietandone la privatizzazione, e la Slovenia ha inserito il diritto d’accesso all’acqua potabile nella propria costituzione.
Anche un’iniziativa che la Commissione aveva inizialmente respinto, quella che chiedeva di fermare i negoziati sull’accordo commerciale con gli Stati Uniti (la Transatlantic Trade and Investment Partnership, TTIP), ha avuto un suo successo. Gli organizzatori hanno fatto ricorso (vincendo) alla Corte di giustizia europea e con la pubblicità creata dal caso, hanno raccolto separatamene tre milioni di firme in segno di protesta.
“Se si pensa a un’influenza diretta sulle decisioni europee, forse il diritto d’iniziativa non è lo strumento giusto. Ma di sicuro contribuisce a rendere certe questioni più rilevanti” afferma Andreas Bieler.
Elizabeth Monaghan dell’Università di Hull, nel Regno Unito, sostiene, in una sua ricerca, che al momento il diritto d’iniziativa favorisce organizzazioni dotate di risorse e ramificazioni in tutta Europa, piuttosto che singoli cittadini. Ma i benefici dovrebbero essere valutati non solo in termini di partecipazione alle decisioni della Ue, infatti: la costruzione di una comunità europea che si occupa di problemi d’interesse generale e la possibilità per i singoli di parteciparvi fanno comunque parte della vita democratica.
Tutti però riconoscono le difficoltà di questo strumento. A settembre 2017 la Commissione europea ne ha proposto una revisione, abbassando l’età legale dei firmatari a 16 anni e semplificando le modalità per la raccolta firme tra le altre cose. La discussione sul nuovo regolamento è in corso a Bruxelles e si dovrebbe concludere entro la fine del 2018. Dopo oltre vent’anni di dibattito, però, sembra che la formula giusta per coinvolgere le persone nelle decisioni dell’Unione europea non sia ancora stata trovata.
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Esercitare il diritto di iniziativa contribuisce a creare quel demos europeo, senza il quale l’Unione europea non potrà mai essere davvero democratica.