Il business delle costruzioni in Libano è un muro di fumo, dietro un sistema clientelare tra politica e economia.
C’è una sorta di competizione nei cieli di Beirut. Dalla collina di Hazmiyeh i grattacieli e le gru si stagliano sulla via che porta al mare. La lotta per il controllo del panorama è una battaglia tra presente e futuro, tra una città in divenire e un confuso piano urbanistico. Amir ha 40 anni, 2 figli ed è un rifugiato siriano in Libano. Quattro anni fa è caduto dal quarto piano di un palazzo in costruzione. La corsa in ospedale, il ricovero d’urgenza, settimane a lottare tra la vita e la morte. “Le operazioni sono costate circa 20mila dollari e ancora porto i segni dell’incidente”, Amir ci racconta la sua storia nella sala d’aspetto di un’ospedale, “Non riesco a lavorare, il mio occhio sinistro non si chiude e i dolori a causa delle fratture sono lancinanti”. Lo status dei profughi siriani in Libano rasenta l’illegalità. Sprovvisti di alcun visto, i rifugiati sono costretti a lavorare in nero senza alcun tipo di assicurazione. Gli abituali infortuni sul lavoro si scontrano con l’assenza di un sistema di walfare. La sanità in Libano è in mano ai privati: visite e operazioni hanno costi molto alti, soprattutto paragonati al salario medio di un rifugiato. Amir ha avuto fortuna, il suo datore di lavoro, probabilmente per non passare guai con la giustizia, ha pagato il pronto soccorso e gli interventi necessari. Non sono pochi però i casi di abbandono: datori che scaricano i lavoratori davanti alle porte degli ospedali e profughi lasciati morire perché senza alcuna assicurazione medica.
“Mio figlio ha lavorato per un anno nei palazzi di Beirut, percependo una paga media di 20 dollari al giorno”, Issam e la sua famiglia vivono nel Nord, nell’Akkar, ai confini con la Siria, “Partiva la mattina verso l’alba per tornare a notte inoltrata”. Dall’agricoltura alla manutenzione delle strade passando per i mercati, l’edilizia è il settore più redditizio. Generalmente un rifugiato siriano guadagna intorno ai 10/12 dollari al giorno, ma il business delle costruzioni alza il salario e il rischio connesso. Il primo pericolo è sulle strade, “quando mio figlio si recava a Beirut, vivevamo in uno stato d’ansia perenne”, continua Issam, “Da Tripoli alla capitale ci sono almeno due posti di blocco e l’esercito avrebbe potuto arrestarlo in qualsiasi momento”. Non ci sono dati sul fenomeno, il lavoro in nero non è stimato per settori in Libano, ma i racconti si susseguono e le testimonianze fotografano la realtà.
Beirut è una città in costruzione: Hamra, Mar Mikhael, Sodico e Aschrafie, i cartelli dei lavori in corso si alternano con i rumori dei calcinacci. Il settore edile, nonostante le continue flessioni, permane al centro della fragile economia libanese. Stando ai dati trasmessi da Infomercatiesteri, i permessi di costruzione nel 2015 hanno visto una diminuzione del 7,7% rispetto al 2014 e le vendite immobiliari hanno avuto un crollo del 10,6% in confronto all’anno precedente. Il gioco conviene a tutti: ai rifugiati siriani, salari più alti della media e maggiore possibilità di sostenere le spese familiari in Libano; agli imprenditori edili, con un mercato in netta recessione abbattere i costi è uno stimolo ad investire in un mercato già conveniente, le tasse sugli utili sono al 5%; alla politica che vede nell’edilizia una delle colonne su cui ergere l’economia interna e le alleanze esterne. “In realtà non è semplice accedere ai cantieri”, ci spiega Alessio, volontario di Operazione Colomba, nella sua tenda del campo rifugiati di Tel Abbas, “ci sono persone che fungono da tramite e richiedono manovalanza”. A differenza di altri lavori, quello delle costruzioni è strettamente connesso alla politica. Un flusso quotidiano di siriani in viaggio verso Beirut potrebbe sollevare la leggera patina su cui si poggia l’intero business. L’apparenza è sostanza: formalmente i profughi sono un problema, evidentemente solo quando fa comodo.
Camminando tra le vie del centro di Beirut è possibile notare i cartelli di appalto con sopra riportati nomi ricorrenti di aziende e imprese. La commistione tra politica libanese, la stessa che ha di fatto reso illegali i rifugiati, e il settore delle costruzioni è un dato di fatto. Nel 1990 l’ex Premier Rafiq Hariri, padre di Saad, attuale Primo Ministro, ha aperto la strada al trait d’union con il progetto Solidere. Il piano, sommerso poi dalle critiche, ha dato il via alla ricostruzione di Beirut post guerra civile, continuando il suo lavoro fino ad oggi. Le accuse mosse nei confronti dell’azienda sono molteplici: appalti non chiari, nessun piano urbanistico, espropri forzati ed una visione personalistica della ricostruzione.
Dal 1990 ad oggi molto è cambiato, il libero mercato ha fatto il suo prepotente ingresso a Beirut e molte delle aziende che costruiscono in città fanno capo a paesi del golfo o all’Arabia Saudita, sponsor di alcuni partiti dell’Assemblea Nazionale. Gli oltre 1 milione e mezzo di rifugiati siriani sono una forza lavoro considerevole. Una forza di lavoro capace di minare la fragile classe medio/bassa libanese e di aumentare la già enorme disuguaglianza tra ricchi e poveri nel paese. L’assoluta mancanza di diritti è la coltura perfetta: i profughi continuano a cadere dai palazzi, ma senza alcuna voce per urlare.
Il business delle costruzioni in Libano è un muro di fumo, dietro un sistema clientelare tra politica e economia.