Crisi di Governo: in questa fase occorrerà ripensare il mercato del lavoro. Dalla difesa dei posti di lavoro esistenti, bisognerà pensare alla creazione di nuovi per far ripartire l'occupazione
Crisi di Governo: in questa fase occorrerà ripensare il mercato del lavoro. Dalla difesa dei posti di lavoro esistenti, bisognerà pensare alla creazione di nuovi per far ripartire l’occupazione
C’è un grande assente nel confronto di questi giorni tra le forze politiche impegnate nelle consultazioni e nella crisi di Governo: è il tema del lavoro. A novembre 2020 sono mancati all’appello 390mila posti di lavoro rispetto allo stesso mese del 2019, nonostante il blocco dei licenziamenti e la cassa integrazione guadagni in deroga. E la situazione è destinata a peggiorare ulteriormente nei mesi a venire. Non è una sorpresa, viste le conseguenze sociali della pandemia: chi ha una visione laica e non ideologica del mercato del lavoro sa che il divieto di licenziare non poteva essere una sospensione delle regole dell’economia o della forza di gravità, cioè non poteva arginare la scomparsa delle attività economiche né sostituirsi al calo di consumi e investimenti. È stato un approccio forse inevitabile nella prima fase dell’economia, quando la logica sottostante era “risarcitoria” rispetto al blocco forzato delle attività economiche. Nella fase che ci apprestiamo a vivere, invece, occorrerà ripensare in profondità gli strumenti: dalla difesa dei posti di lavoro esistenti, bisognerà passare alla creazione di nuovo lavoro.
La soluzione non è la spesa pubblica fine a se stessa, poco importa se di provenienza italo-italiana o europea. Finora, l’effetto macro delle manovre in deficit adottate nel 2020 è stato tanto sorprendente quanto inevitabile: un travaso dal debito pubblico (di tutti) al risparmio privato (di alcuni). A fine 2020 i depositi bancari degli italiani contavano un aumento di valore di circa 125 miliardi di euro rispetto all’anno precedente; se paragoniamo questo stock ai circa 194 miliardi di debito pubblico in più a fine 2020 rispetto al 2019, ci rendiamo conto di quanta parte delle misure economiche adottate per la pandemia abbia in realtà prodotto un accumulo di ricchezza, concentrata in modo diseguale tra classi sociali e anagrafiche, anziché uno stimolo a consumi e investimenti, e dunque al lavoro.
Dopo l’abbuffata di deficit pubblico e di intervento nell’economia, dovremo saper riattivare le forze del mercato e della concorrenza. Occorrerà far confluire quella massa di risparmi accumulata nell’economia reale, evitando però la scorciatoia sempreverde del mercato immobiliare. L’Italia ha un eccesso di ricchezza immobilizzata nel mattone, per ragioni culturali ma anche per gli incentivi normativi: il super bonus 110% ne è solo un ultimo esempio. Bisogna invece convincere i risparmiatori italiani a scegliere sempre più la via dell’innovazione anche nei loro piccoli investimenti ai fini del risparmio: è questo un tema su cui le politiche pubbliche dei prossimi anni dovranno dedicare la massima attenzione.
Oggi più che mai, in attesa di darsi un nuovo Governo, l’Italia ha dunque bisogno di tornare a parlare di strumenti adeguati per far ripartire l’occupazione ed espandere il potenziale della sua economia. Non è esattamente la specialità del Paese, che già prima della crisi soffriva di un grave gap di produttività rispetto agli altri grandi Paesi europei e che – quando si parla di mercato del lavoro – combatte spesso con i fantasmi delle vecchie ideologie del passato. Agli oppositori della flessibilità dei contratti e dei modelli di lavoro, ai nostalgici dell’Articolo 18 e delle lotte operaie, il divieto di licenziamento è apparso come una risposta rassicurante, alla quale faranno fatica a rinunciare. Ma è quella la base da cui partire, il superamento del blocco dei licenziamenti. Non basterà ovviamente, perché superato quello ci ritroveremo comunque con un set di regole – quelle del decreto dignità, per esempio – la cui rigidità rischia di produrre costi altissimi se non verrà modificata.
Altro passaggio cruciale dovrà essere il superamento della cassa integrazione come strumento privilegiato di ammortizzazione sociale, in favore del potenziamento della Naspi, di una revisione profonda del sistema dei centri per l’impiego e dei modelli di formazione e riqualificazione dei lavoratori. In questo quadro, non potrà essere un tabù la revisione del reddito di cittadinanza per come costruito e implementato: un sussidio assistenziale spesso incapace di coprire dal rischio povertà i veri bisognosi e non accompagnato da adeguati strumenti attivi (i navigator sono naufragati, tra incompetenze e burocrazia). Quanto e come l’Italia saprà beneficiare per le sue politiche attive del lavoro del NextGenEU e del fondo Sure staremo a vedere: di certo, la figura del prossimo ministro del Lavoro sarà un ruolo chiave del governo che sarà.
Accanto a questo, è proprio nella capacità di ritrovare una visione strategica e una vocazione produttiva e industriale che si basano le chance di ripresa del lavoro italiano. Passata la crisi, il mondo e la stessa Europa riprenderanno probabilmente a correre più velocemente di quanto abbiano mai fatto.
L’Italia dovrà saper cogliere le opportunità dei cambiamenti tecnologici in atto e attesi e non perdere terreno rispetto ai suoi principali competitor. La tendenza alla sostituzione del lavoro umano con le macchine, più o meno intelligenti, sarà quanto mai disruptive, e noi avremo bisogno di imprese che sappiano essere nuove protagoniste del cambiamento, di un sistema scolastico e universitario che formi rapidamente ed efficacemente le nuove necessarie competenze, di un sistema di welfare capace di combattere come mai accaduto prima l’obsolescenza professionale dei lavoratori.
C’è un grande assente nel confronto di questi giorni tra le forze politiche impegnate nelle consultazioni e nella crisi di Governo: è il tema del lavoro. A novembre 2020 sono mancati all’appello 390mila posti di lavoro rispetto allo stesso mese del 2019, nonostante il blocco dei licenziamenti e la cassa integrazione guadagni in deroga. E la situazione è destinata a peggiorare ulteriormente nei mesi a venire. Non è una sorpresa, viste le conseguenze sociali della pandemia: chi ha una visione laica e non ideologica del mercato del lavoro sa che il divieto di licenziare non poteva essere una sospensione delle regole dell’economia o della forza di gravità, cioè non poteva arginare la scomparsa delle attività economiche né sostituirsi al calo di consumi e investimenti. È stato un approccio forse inevitabile nella prima fase dell’economia, quando la logica sottostante era “risarcitoria” rispetto al blocco forzato delle attività economiche. Nella fase che ci apprestiamo a vivere, invece, occorrerà ripensare in profondità gli strumenti: dalla difesa dei posti di lavoro esistenti, bisognerà passare alla creazione di nuovo lavoro.
La soluzione non è la spesa pubblica fine a se stessa, poco importa se di provenienza italo-italiana o europea. Finora, l’effetto macro delle manovre in deficit adottate nel 2020 è stato tanto sorprendente quanto inevitabile: un travaso dal debito pubblico (di tutti) al risparmio privato (di alcuni). A fine 2020 i depositi bancari degli italiani contavano un aumento di valore di circa 125 miliardi di euro rispetto all’anno precedente; se paragoniamo questo stock ai circa 194 miliardi di debito pubblico in più a fine 2020 rispetto al 2019, ci rendiamo conto di quanta parte delle misure economiche adottate per la pandemia abbia in realtà prodotto un accumulo di ricchezza, concentrata in modo diseguale tra classi sociali e anagrafiche, anziché uno stimolo a consumi e investimenti, e dunque al lavoro.
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