La storia della Repubblica dice che le crisi più lunghe hanno prodotto i Governi più instabili e brevi. Solo due settimane per passare da Conte 1 a Conte 2
Una crisi veloce garantisce una durata lunga. Questo almeno dicono i precedenti, una delle poche ragioni di ottimismo per il Governo italiano in carica, visto che a settembre ci sono volute appena due settimane per passare dalle dimissioni del Conte 1 al giuramento del Conte 2. Ed è stata soprattutto l’esigenza di avere in carica un Governo in grado di sterilizzare l’aumento dell’Iva a spingere per una soluzione rapida della crisi. Tanto che secondo il suo primo sponsor, Renzi, questo avrebbe potuto chiamarsi, addirittura, Governo “no tax”. Il seguito prova che si trattava di una scusa come un’altra: l’importante era chiudere velocemente la crisi.
Dall’inizio di quella che viene comunemente chiamata “seconda Repubblica” a oggi, tre volte le difficoltà nella composizione del nuovo Governo hanno tenuto aperta la crisi per un periodo lungo. È successo sempre dopo le elezioni. Nel 2018 ci sono voluti 87 giorni per dare vita al primo Governo Conte, un record assoluto per la storia repubblicana (crisi più lunghe si sono risolte irrimediabilmente con lo scioglimento delle camere). Nel 1992 il primo Governo Amato ebbe bisogno di 82 giorni per alzarsi instabilmente in piedi, a cavallo tra la fine dell’Italia dei partiti e l’inizio della nuova era. Nel 2013 servirono 60 giorni per dare vita al Governo Letta. In tutti gli altri casi − con la sola eccezione della prima prova, spartiacque, di Silvio Berlusconi – la soluzione rapida della crisi ha consentito ai Presidenti del Consiglio una permanenza non breve a Palazzo Chigi, fino alla fine della legislatura o comunque più a lungo rispetto alle tribolate partenze di Amato, di Letta e del Conte uno.
Si potrebbe trarre la facile morale che i Governi più complicati da far partire sono evidentemente quelli dove l’amalgama tra le forze coalizzate è più instabile, destinati per questo a durare poco. Ma proprio il caso del Governo oggi in carica, nato dal fulminante abbraccio tra i nemici giurati di Pd e 5 Stelle, invita a osservare con più attenzione i ritmi interiori della politica italiana.
Una delle citazioni più abusate, tanto che non si sa nemmeno a chi attribuirla, recita che “in politica i tempi sono tutto”. Più correttamente si dovrebbe dire che in politica il tempo è un concetto assai relativo. Un mese per risolvere la crisi può essere un periodo breve oppure lunghissimo, dipende da come lo si racconta, dall’enfasi che viene messa sull’urgenza di insediare un Governo. Esemplare quello che accadde nel 2013, quando Giorgio Napolitano dilatò i tempi delle consultazioni e dei colloqui tra i partiti, dopo che dalle urne era uscito un Parlamento diviso in tre: centrosinistra, 5 Stelle e centrodestra. Il lento intervallo − durante il quale i grillini esposero la nota teoria della “prorogatio” dei Governi − servì a esporre Bersani a ogni genere di umiliazione, un rito lunghissimo fatto di agguati in streaming e prese in giro sui blog. Ci fu insomma il tempo per scandagliare tutte le irrimediabili differenze tra i 5 Stelle e il Pd che non avrebbero mai consentito di stringere un patto a due. Giova ricordare che i punti di partenza erano allora molto più avanzati di quelli di oggi: alla coalizione di centrosinistra mancavano una quarantina di voti al Senato ma aveva una salda maggioranza assoluta alla Camera dei deputati. E i 5 Stelle erano un po’ diversi da oggi, soprattutto non avevano ancora governato con la Lega.
La lunga parentesi, durante la quale il Presidente della Repubblica nominò persino una commissione di dieci saggi che doveva proporre riforme condivise in campo economico e istituzionale, consentì la lenta maturazione di un accordo di Governo di cosiddette “larghe intese” tra la prima e la terza coalizione uscite dalle urne, un patto tra centrosinistra e centrodestra con i 5 Stelle all’opposizione. Il Governo di Enrico Letta. A riprova della relatività delle urgenze, tutti i commentatori che avevano ben compreso e assecondato i ritmi lenti di Napolitano, diventarono improvvisamente nervosi al secondo giorno di votazioni per il Presidente della Repubblica, nell’aprile di quello stesso 2013. Dopo il fallimento del primo scrutinio che prevedeva un quorum ridotto, al quarto, giornali e tv presero a raccontare di uno stallo inaudito, di una vera emergenza democratica. Quando in realtà si procedeva con i ritmi consueti: negli undici precedenti, appena due Presidenti della Repubblica erano stati eletti al primo colpo, mentre molto frequenti erano stati i casi di votazioni ripetute, fino al 23esimo scrutinio.
Il clima da ultima spiaggia dell’aprile 2013 – ricordiamo il titolo di un editoriale del Corriere della Sera “La Repubblica è sospesa nel vuoto” − fu decisivo per la rielezione di Napolitano. È sempre il fiato sul collo a rendere possibili soluzioni ardite: com’è noto è stato l’unico caso nella storia della Repubblica in cui un Presidente è stato rieletto per un secondo mandato.
Anche quest’anno, ad agosto, dal momento in cui si è aperta la crisi del primo Governo Conte, l’imperativo è stato quello di fare presto. Eppure si sono lasciate trascorrere quasi due settimane tra il giorno in cui Salvini ha annunciato la rottura dell’alleanza (8 agosto) a quello in cui Conte è andato in Senato a fare le sue comunicazioni, tagliare i ponti con Salvini e immediatamente dopo salire al Quirinale e dimettersi (20 agosto). Non è stato tempo sprecato. È stato il tempo necessario a far maturare le condizioni per la nascita del nuovo Governo. Il tempo per passare dall’inevitabilità delle elezioni anticipate alla formazione invece di una nuova maggioranza, con lo stesso Presidente del Consiglio. Qualcosa che al momento del primo annuncio di rottura della Lega sembrava assolutamente impossibile, persino nel giudizio di alcuni protagonisti (Zingaretti e Salvini stesso). In quello spazio Renzi è stato il più svelto a infilarsi, rovesciare le sue posizioni e aprire al Governo con i 5 Stelle.
È stata anche quella un’operazione molto ardita che proprio per questo andava portata a segno velocemente. Il tempo che è trascorso lento tra l’8 e il 20 agosto, dopo le dimissioni di Conte ha ripreso a correre. A quel punto non si poteva più aspettare, “la crisi va risolta in tempi brevi come richiede un grande Paese come il nostro” ha avvertito Mattarella. E così in appena due settimane di consultazioni e colloqui, il di nuovo Presidente del Consiglio ha potuto sciogliere la riserva e giurare per la seconda volta. In quel breve spazio di tempo si è compiuto un passaggio storico, due partiti tenacemente avversari (Di Maio fino all’ultimo si è perfino rifiutato di pronunciare la parola “Pd”) hanno stretto un patto e firmato un programma comune. Se avessero avuto il tempo per pensarci bene, per lavorare seriamente alle convergenze possibili tra 5 Stelle e democratici, per elaborare il senso politico dei 14 mesi di alleanza dei grillini con la Lega, quasi sicuramente il Governo non sarebbe nato. Per quanto si sia sentito parlare di “patto alla tedesca” − per la verità lo si era già fatto al tempo del “contratto di Governo” tra grillini e leghisti e si è visto com’è andata a finire – la svelta intesa di casa nostra è quanto di più lontano possibile dall’esperienza germanica. Lì il testo dell’accordo di Governo – 78 pagine di preliminare e 177 di documento definitivo – è passato attraverso il lavoro di 18 comitati e numerosi esperti, per essere poi votato dai delegati nel congresso della Cdu e dai quasi 500mila iscritti della Spd. In Italia la clamorosa svolta che ha portato grillini e democratici a formare un Governo assieme è stata approvata all’unanimità (tranne uno) dalla direzione del Pd, la stessa che pochi giorni prima aveva votato all’unanimità la linea opposta – mai con i 5 Stelle. E da 63mila iscritti (su oltre 10 milioni di elettori del Movimento) alla piattaforma Rousseau, un’infrastruttura multata dal garante della privacy perché non esclude la possibilità che i gestori possano intervenire sui risultati.
In Germania la soluzione della crisi ha richiesto sei mesi di tempo. Tempo che noi non potevamo permetterci perché bisognava tassativamente rispettare le scadenze di bilancio e sterilizzare subito l’aumento dell’Iva. Così è nato l’esecutivo di “emergenza”. Che ha presentato in ritardo i primi due documenti di bilancio – la Nadef e la bozza della manovra per la Commissione Ue. E ha valutato anche l’aumento dell’Iva.
@andreafabozzi
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di novembre/dicembre di eastwest.
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