La deriva golpista a Male è al centro di un confronto geopolitico tra giganti. L’opposizione chiede aiuto a Modi, ma Delhi è surclassata da Pechino, che grazie al mix tra investimenti economici e non-ingerenza politica sta conquistando la storica sfera di influenza indiana
Dall’inizio di febbraio nelle Maldive si sta dipanando una crisi politica che, a dispetto delle esigue dimensioni dell’arcipelago, sta interessando attivamente le cancellerie di Cina e India. Gli atolli paradisiaci, abitati da meno di mezzo milione di maldiviani, sono infatti al centro delle strategie geopolitiche di New Delhi e Pechino, impegnate in un braccio di ferro serrato per consolidare le rispettive influenze sugli Stati dell’Asia meridionale.
Due settimane fa la Corte suprema maldiviana, a sorpresa, aveva deciso di stralciare le condanne per terrorismo comminate a diversi esponenti politici, avvocati e giudici considerati ostili all’attuale amministrazione, dal 2013 sotto la controversa presidenza di Abdulla Yameen. Tra i condannati figuravano Mumoon Abdul Gayoom, ottantenne fratellastro di Yameen ed ex presidente, e Mohamed Nasheed, il primo presidente eletto democraticamente nella storia delle Maldive, dal 2015 residente nel Regno Unito con status di rifugiato politico.
In risposta alla sentenza della Corte, che contemporaneamente riabilitava 12 parlamentari delle opposizioni spianando la strada per possibili procedure di impeachment ai danni di Yameen, lo scorso 5 febbraio il presidente maldiviano annunciava l’entrata in vigore dell’Emergency: in sostanza, l’imposizione della legge marziale e la sospensione della democrazia nel Paese per 15 giorni.
A stretto giro, le forze dell’ordine hanno arrestato due dei cinque giudici della Corte suprema, pochi giorni prima che i tre giudici in libertà improvvisamente ribaltassero la sentenza pronunciata il primo febbraio, confermando le condanne agli oppositori di Yameen.
Effetto di una vampata autoritaria che lo stesso Yameen, in un messaggio alla nazione, ha descritto come necessaria per contrastare un presunto golpe ordito contro di lui.
Il 6 febbraio l’esule Nasheed si è appellato alle autorità indiane, chiedendo un intervento diplomatico con supporto militare per liberare i giudici incarcerati e liberarsi una volta per tutte del presidente Yameen, protagonista di un mandato costellato da accuse di corruzione e incarcerazioni sistematiche degli oppositori del regime. Nel medesimo comunicato, Nasheed richiedeva anche che gli Stati Uniti bloccassero il trasferimento di denaro nelle casse di Yameen e dei suoi alleati, indebolendone l’agibilità economica.
Washington e New Delhi, palesando il turbamento per la china autoritaria presa dalla democrazia maldiviana, si sono limitate a un appello diretto al presidente Yameen, esortandolo a “rispettare i diritti umani”. Risposta tiepida su cui incombe l’ombra della crescente influenza della Cina nell’arcipelago.
Se fino al 2011 le Maldive sono sempre state parte integrante della sfera di influenza dell’India, ininterrotta sin dall’indipendenza accordata dal Regno Unito all’arcipelago nel 1965, la presidenza Yameen ha drasticamente spostato gli equilibri, spingendo Male tra le braccia della Repubblica popolare cinese.
Seguendo la strategia di massicci investimenti infrastrutturali già rivelatasi vincente in Sri Lanka, Pechino ha progressivamente inondato l’arcipelago di denaro in prestito per la realizzazione di progetti avveniristici: ponti, complessi abitativi e interi quartieri da realizzarsi su terreni reclamati alle acque oceaniche. Al momento, la Cina detiene oltre il 70% del debito pubblico maldiviano e, lo scorso mese di dicembre, ha siglato con le Maldive un trattato di libero scambio che abbatterà i dazi per il 95% delle esportazioni verso la Repubblica popolare.
Il progetto di Pechino è chiaro: l’eccellente posizione strategica delle Maldive rappresenta un tassello inestimabile da aggiungere al mosaico della Via della Seta marittima, il lato balneare della gigantesca rete commerciale promossa dal presidente Xi Jinping per espandere l’influenza commerciale e politica della Cina nel globo. E, come già fatto in Sri Lanka , Pakistan, Bangladesh e in Nepal, anche nelle Maldive il tandem investimenti e non-ingerenza negli affari interni sembra aver dato i frutti sperati.
Drammaticamente surclassata dal punto di vista economico, l’India è oggi di fatto accerchiata da nazioni – Pakistan escluso – su cui un tempo esercitava un’influenza sostanzialmente monopolista ma che ora una ad una sembrano preferire al paternalismo di New Delhi l’aiuto “disinteressato” di Pechino. Un bel grattacapo per il primo ministro indiano Narendra Modi, incapace di contrapporre all’espansione cinese un’allettante alternativa subcontinentale.
Per questo, nell’affare Maldive, l’India è costretta a una postura politicamente insidiosa: da un lato, non può permettersi una plateale resa per ciò che riguarda letteralmente il proprio strettissimo vicinato – le Maldive distano solo 700 km dall’arcipelago indiano delle Laccadive, nodo centrale dell’arsenale navale di New Delhi -, dall’altro, non dispone più della forza politica per intervenire direttamente negli affari dell’arcipelago come fece nel 1988, quando i soldati indiani sgominarono un colpo di stato che minacciava la presidenza filo indiana di Gayoom.
La stampa indiana ha dato risalto a una telefonata tra Modi e Trump, entrambi chiamati in causa da Nasheed, ma un intervento muscolare che vada oltre la manifesta preoccupazione è francamente improbabile nel futuro immediato.
D’altro canto i falchi cinesi, in un commento pubblicato sul Global Times, già hanno denunciato la minaccia di ingerenza indiana negli affari nazionali maldiviani, giocando su uno spauracchio neocoloniale che in un subcontinente profondamente segnato dall’occupazione britannica – mai veramente metabolizzata, nemmeno nell’India democratica – continua ad avere enorme presa sugli orgogli nazionalisti della regione.
Per sbrogliare la matassa maldiviana, con l’occasione di elezioni nazionali programmate entro la fine di quest’anno, secondo il New York Times, non resta altro da fare che intensificare pressioni diplomatiche multilaterali, dall’Onu all’Unione Europea.
@majunteo
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