Dopo la stagione delle proteste politiche, è iniziata quella degli assalti ai forni. E mentre il popolo invoca un miracolo, cento economisti venezuelani inviano a Maduro una lettera aperta con tutte le misure da adottare per uscire dalla crisi. Due di loro ci spiegano quali sono
Finora sembravano casi isolati. È capitato che gente esausta, dopo ore di coda per comprare un pacchetto di farina, finisse per assaltare il negozio, come è successo a fine novembre a Nirgua nello Stato di Yaracuy, nord-ovest del Venezuela. Oppure qualche giorno prima a El Tigre, nell’Anzoátegui, quando un negozio cinese veniva preso di mira all’arrivo di un camion di riso. Persino la mattina di Natale le cronache riportavano tre tentativi di saccheggio: a Ciudad Bolivar, nel Paese profondo, gruppi di persone attaccavano una liquoreria, altri picconavano un magazzino alimentare e un terzo si rivoltava al supermercato Makro.
Poi l’onda si è ingrossata: l’Osservatorio venezuelano sulla conflittualità sociale (Ovcs) ha calcolato che nei primi 11 giorni di quest’anno ci sono state in tutto il Paese 386 proteste, «più di quelle registrate nell’intero mese di gennaio 2017», si legge nel rapporto; 107 le azioni saccheggio, vale a dire «cinque volte di più».
La polizia reagisce: 296 arresti e 5 morti. Il primo, il 9 gennaio, sull’autostrada José Antonio Paez, nello Stato di Portuguesa: nell’assalto a un camion di farina di grano c’ha lasciato la vita un diciannovenne, colpito da un’arma da fuoco.
Chiuso l’anno delle violente proteste politiche, si apre la stagione della disperazione? La scarsità di alimenti e i costi proibitivi (dovuti a un’inflazione che ha chiuso l’anno a oltre il 2600%) sfociano in assalti e saccheggi, come mai si era visto dai tempi del Caracazo del 1989, l’anno dei sanguinosi riot nella capitale stremata dalle politiche liberiste e considerato l’atto fondativo dell’epopea chavista.
Non a caso, nessuna autorità governativa, tanto meno il presidente Nicolas Maduro, ha fatto finora riferimento all’assalto ai forni. Jesymar Añez, del giornale digitale El Pitazo, ha provato a farne una radiografia. Dal 31 dicembre al 12 gennaio ha raccolto informazioni su 80 attacchi, 25 dei quali in città e piccoli centri delle regioni orientali e 17 nello Stato di Zulia a ovest. Di solito avvengono di giorno: la gente vede arrivare un camion di alimenti, lo rincorre a piedi o in moto per strada, lo circonda e si porta via tutto. Se il trasporto è di animali, capita che li uccidano e li facciano a pezzi sul posto.
«Sono assalti compiuti in media da una trentina di persone – spiega la giornalista – Ma ci sono anche casi, come quelli a Los Puertos de Altagracia e Caicara del Orinoco, dove hanno partecipato più di 1000 persone». Cosa cercano? «Generi alimentari: farina, pasta, pollo, verdure, frutta, succhi e bibite, birra» elenca.
Sary Levy-Carciente è una economista, docente alla Ucv (Universidad Central de Venezuela) e membro dell’Accademia di Scienze economiche: «Con queste dimensioni, con questa frequenza e in così tanti luoghi diversi è un fatto inedito per il Paese. Non è un caso che il fenomeno si registri soprattutto all’interno. Nella capitale la scarsità di alimenti c’è ma evidentemente si riesce a gestire ancora. In provincia la situazione è drammatica. È fame».
Sary Levy è anche una delle promotrici di un altro fatto inedito: 100 economisti venezuelani hanno firmato una lettera aperta al presidente Maduro, condividendo dati, diagnosi e soprattutto precise misure da adottare per uscire dalla gravissima crisi in cui è infilato il Paese negli ultimi quattro anni almeno. Alcuni si erano già esposti, ma è la prima volta che si fanno sentire insieme, così tanti e da tutto il Paese. «Il fatto è che stiamo assistendo a un cocktail mortale dal punto di vista macro-economico. Il risultato è che gli stipendi di lavoratori e impiegati sono polverizzati e un super-salario da manager non arriva ai 50 dollari al cambio».
I 100 economisti hanno ricostruito i dati che ormai le agenzie statali non rendono più pubblici, a cominciare dal rapporto che lo stesso governo ha dovuto inviare alla Securities Exchange Comission (Sec) negli Stati Uniti, dove opera massicciamente la Pdvsa (la petroliera di Stato) e le sue affiliate. Dati impietosi: durante il governo Maduro l’economia si è contratta di quasi il 40%, la Banca Centrale ha stampato denaro 667 volte per una quantità moltiplicata per 162. I consumi? -32,1% per abitante. I salari? Perduto l’80% del valore. Le riserve internazionali? Ne resta un terzo, circa 10 mila milioni di dollari. La produzione di petrolio? -40%. È il ritratto di un collasso. Il quadro è simile a un Paese in guerra.
Il petrolio, nel frattempo, ha visto aumentare sensibilmente il prezzo nell’ultimo anno. Perché non si è tradotto in ossigeno per le casse dello Stato? Prova a spiegarcelo Urbi Garay, docente allo Iesa, l’Istituto di studi superiori di amministrazione di Caracas: «La caduta dell’economia è di una dimensione tale che l’aumento del prezzo del petrolio non basta. Si stima che dei 1,8 milioni di barili estratti ogni giorno, appena 700 mila generano divise, il resto della produzione è destinata a pagare debiti con la Cina (circa 500 mila barili), si consuma o si esporta a prezzi sussidiati ai Paesi del Caribe». E aggiunge: «Il principale problema è proprio avere liquidità».
Molti osservatori paragonano la situazione venezuelana a quella dell’Argentina del 2001. Ma gli economisti interpellati scuotono la testa. Per Urbi Garay «era drammatica ma non simile. L’Argentina al tempo riuscì a uscirne soprattutto grazie alla moratoria del pagamento e la ristrutturazione del debito». Concorda Sary Levy: «Ci avviciniamo a casi come quello ucraino. La storia ci insegna che situazioni estreme possono resistere a lungo: Haiti è da due secoli in ginocchio. D’altra parte il Perù è stato l’esempio per decenni di un Paese senza via d’uscita, oggi è una delle economie più forti della regione».
Il Venezuela è un ingranaggio impazzito. Che cosa si può fare in queste condizioni? «Ci vuole un sistema integrato di misure per stabilizzare l’inflazione che è il pericolo numero uno e avere nuove risorse liquide». In altre parole: «chiedere ai meccanismi internazionali un prestito», dice Garay: «Senza prestiti non sarebbe possibile stabilizzare l’economia». Ma non è già tanto indebitato il Paese? « È vero che il livello di indebitamento è già molto alto: per questo dovrebbe ristrutturare il debito dei titoli di Stato, che il governo già non onora più, e rinegoziare quello con Cina e Russia. Ma nessun recupero è possibile senza un ripristino della fiducia nell’economia, con un programma credibile e nuovi finanziamenti».
Un mix si strumenti, dunque: smantellando tutti i sistemi attuali di cambio, stabilizzando in modo accettabile la moneta, liberando risorse, ridando autonomia alla Banca Centrale, dando fiato alla produzione, in particolare al settore privato, dicono tutti i firmatari. Perché, insistono, se fosse messo in atto il mix di proposte che i 100 hanno lasciato sul tavolo del presidente, il Paese potrebbe ripartire persino nel giro di uno o due anni. «In Venezuela si dà il paradosso che un programma ben disegnato e credibile potrebbe persino essere espansivo, invece che contrattivo come di solito succede – sottolinea Garay – Il ritorno della fiducia interna ed esterna e la razionalizzazione dei prezzi aprirebbero miracoli».
Un miracolo deve essere quello che tutti hanno chiesto a La Divina Pastora portata in processione come ogni anno il 14 gennaio, in un’atmosfera mai così triste, mentre l’eco dei saccheggi rimbalzava da un capo all’altro del Paese. Eppure non sarà la popolare Virgen la chiave di volta: a detta dei 100 economisti è necessario «un cambio delle condizioni politiche, un giro radicale delle politiche economiche, il ripristino della legalità costituzionale». Sary Levy lo spiega così: «Coerenza, sensibilità, fiducia sono indispensabili perché funzioni un’economia. La variabile necessaria perché succeda è inevitabilmente un cambio di regime politico».
Nicolas Maduro non sarà contento della lettera ricevuta, che si conclude così: «Non le resta altro che rompere gli interessi creati attorno all’economia dei controlli e all’uso discrezionale, senza alcun rendiconto pubblico, delle risorse pubbliche, che ha dissanguato il Paese. Se non lo fa, non sarà perdonato davanti ai suoi concittadini e di fronte alla storia».
@fabiobozzato
Dopo la stagione delle proteste politiche, è iniziata quella degli assalti ai forni. E mentre il popolo invoca un miracolo, cento economisti venezuelani inviano a Maduro una lettera aperta con tutte le misure da adottare per uscire dalla crisi. Due di loro ci spiegano quali sono