Il ricambio generazionale e il pragmatismo hanno cambiato Washington e L’Avana.

Dopo cinquant’anni, i due paesi nemici storici riallacceranno i rapporti diplomatici. In contemporanea in tv, Barack Obama a Washington e il suo omologo Raúl Castro all’Avana annunciano la storica decisione. Il discorso del fratello di Fidel Castro al popolo cubano dura 4 minuti. Obama è più generoso e va subito a ciò che lo ha spinto a impegnarsi per abbattere una delle ultime reliquie della Guerra fredda, l’embargo degli Stati Uniti contro la comunista Cuba. Pragmatismo e forza del ricambio generazionale: eccole nella sostanza le motivazioni dell’epocale riavvicinamento.
Oggi, ha detto il presidente Usa, “né agli americani né ai cubani può essere di beneficio una politica rigida che ebbe origine in eventi di prima che la maggior parte di noi fosse nata”. Il presidente Usa non crede che si possa continuare “a fare come da più di cinque decenni e aspettarsi un risultato diverso. Portare Cuba al collasso non aiuta né gli interessi americani né i cubani”, è stata la sua conclusione pragmatica.
Le trattative tra Obama e Raúl Castro si sono svolte lungo cinque anni per buona parte in Canada, dopo un primo colloquio senza precedenti in Sudafrica. La spinta decisiva l’ha data però il Papa sudamericano. Con una missiva personale, Francesco aveva sollecitato Obama a prendere in considerazione la richiesta cubana di liberare tre sue spie detenute da 15 anni negli Usa e Castro a liberare un americano, Alan Gross, detenuto da cinque anni a Cuba per aver tentato di installare un collegamento internet per la comunità ebraica cubana. Mentre Obama e Castro si avvicinavano ai microfoni, Gross sbarcava nella base navale Andrews a Washington e una spia cubana degli Usa che ha avuto un ruolo storico aveva già raggiunto il territorio americano. In cambio, gli Stati Uniti hanno rilasciato e consegnato a Cuba tre sue spie che scontavano 15 anni negli Usa. L’Avana come gesto di buona volontà ha liberato inoltre 53 presos politicos.
Lo scambio di prigionieri non ha solo segnato l’ora dell’avvio di rapporti diplomatici normalizzati, ma anche di un percorso di softpower con grande potenzialità per gli Usa. Gli 11 milioni di cubani importano beni per più di 11 miliardi di dollari, poco meno del doppio delle esportazioni, e Cuba ha bisogno di tutto: infrastrutture, it, cibo, investimenti. Ma c’è un’altra condizione che nessuno menziona. Se con il crollo della Cortina di ferro a Cuba è venuto a mancare il grande fornitore sovietico, a supplire al vuoto negli ultimi anni si è fatta avanti pesantemente ma in sordina la Cina. Ovvero, come ha detto lo scrittore franco-cubano Eduardo Manet a una giornalista di France24 riferendosi all’embargo, “tra cinque anni Cuba sarà cinese”. La Cina si sta comprando l’Isola e vorrebbe trasformare L’Avana nella Shanghai dei Caraibi. Ergo, non c’era tempo da perdere.
Nella prima fase, anche se il turismo resta vietato, la concessione dei visti sarà più semplice e i viaggiatori americani potranno portare più contanti, usare le carte di credito, ripartire con prodotti, alcol e sigari per importi più alti. Gli imprenditori potranno aprire conti a Cuba ed esportare senza limiti risorse destinate a scopi umanitari o agli affari per sostenere il nascente settore privato cubano. Si potranno finalmente esportare verso Cuba tecnologie per le telecomunicazioni e per l’accesso a Internet e non ci saranno più limiti alle rimesse.
Sul piano formale diplomatico, il segretario di Stato John Kerry – “sarò il primo segretario di Stato ad arrivare a L’Avana dopo gli anni ’50” – rivedrà l’appartenenza di Cuba al gruppo di Stati che fomentano il terrorismo. A L’Avana è previsto l’arrivo un ambasciatore americano in una nuova ambasciata Usa. Qui però iniziano i problemi. Obama non ha il potere di annullare l’embargo, e nemmeno di allocare fondi per costruirne una. Solo il Congresso lo può fare, ma da gennaio le due Camere saranno repubblicane. E il Grand Old Party, con l’eccezione di alcuni congressisti che hanno contribuito al risultato diplomatico di ieri, ritengono che Obama sia stato un pessimo negoziatore, perché ho ottenuto solo quello che i cubani volevano concedere.
In casa, Obama sa che gli sarà molto difficile convincere gli esiliati cubani che hanno vissuto la rivoluzione del ’59 della bontà di voltare pagina con lo stesso regime che fu del Che Guevara e di Fidel. Nel discorso ha tessuto le lodi della comunità cubano-americana e detto di rispettare “la loro passione”. Tuttavia, ricordando di essere nato nel 1961, “due anni dopo la presa del potere da parte di Fidel Castro”, ha anche chiarito che si sta rivolgendo alle “nuove generazioni di cubani (statunitensi) che sempre di più mettono in discussione una politica che vuole mantenere Cuba isolata in un mondo interconnesso”. Dopotutto, l’appuntamento elettorale del 2016 non è lontano e i latinos più giovani lo hanno finora sostenuto.
Tra i conservatori corre un’altra faglia che Obama vorrà sfruttare. I giovani imprenditori americano-cubani avrebbero molto da guadagnare dalla fine dell’embargo. E non solo loro. I titoli delle società che hanno interessi a Cuba ieri a Wall Street sono schizzati, indicando che gli investitori, repubblicani o meno, vedono con interesse l’emergere di un mercato praticamente vergine a 90 miglia dalle proprie coste. Vincere la battaglia dell’embargo al Congresso sarà più difficile. Il senatore repubblicano della Florida e possibile candidato repubblicano, Marco Rubio, ha detto senza mezzi termini che lo stimolo economico di questa svolta farà sopravvivere “il regime di Castro ancora per generazioni”.
Rubio non poteva forse dire diversamente, ma altri come Obama ieri gli ricorderanno che trent’anni fa, 22 anni dopo la decisione del presidente repubblicano Dwight Eisenhower di instaurare l’embargo, un altro presidente del partito dell’elefantino, Richard Nixon, faceva un primo passo anch’esso storico per normalizzare le relazioni sino-americane. Nessuno può negare i vantaggi che ne sono derivati per gli interessi americani. Così, nonostante le gravi violazioni dei diritti umani che persistono nel paese asiatico, il viaggio di Nixon a Pechino è entrato nei libri di storia. Tutto lascia intendere che mercoledì 17 dicembre diventerà una delle pagine del presidente Obama.
Dal punto di vista geopolitico, Cuba era l’ultimo tassello mancante di una “normalizzazione dei rapporti” avvenuta con successo rispetto a quasi tutti i paesi latinoamericani, nonostante lo spagnolo pare si presti bene a una retorica anticolonialista tutt’altro che sopita sotto il Rio Grande. “Dobbiamo lasciarci alle spalle l’eredità del colonialismo e del comunismo”, chiede Barack Obama, che vuole portare Castro al summit interamericano di aprile. Dopotutto, ha ricordato, “todos somos americanos”.
Il ricambio generazionale e il pragmatismo hanno cambiato Washington e L’Avana.