Cuba è un sogno. Infranto? Non per me. Io ho respirato dignità ed orgoglio, in un clima di serenità e di buona vita.
“Noi siamo di Rosario, sapete chi è nato a Rosario?”
“Messi, Messi!”
Le due belle donne argentine sotto l’ombrellone sono accerchiate da ammiratori e proci di ogni genere. Erano in topless cullate dal sole ma si rivestono in fretta. I pretendenti cubani, resi fastidiosi quanto testardi dal rum, stringono ancora maggiormente il cerchio attorno alle loro prede. S’impegnano e non poco, sebbene non abbiano nessuna possibilità di riuscita. Così sentenzia severo l’osservatore esterno sdraiato lì vicino con camicia aperta, libro in mano e cannuccia del moijito in bocca. Io.
Le milf stanno al gioco e fanno parlare gli isolani. Sono tutti palestrati ma di bassa statura, le ragazze li sovrastano di almeno una spanna.
Il fatto che nessuno di questi trentenni risponda convinto “El Che”, cosa che faccio io sibilando quasi indignato, mi lascia perplesso sulla rivoluzione eterna lasciata da lui stesso, dai fratelli Castro, da Camilo Cienfuegos e da tutti gli altri. Eroi, martiri, soldati. Un manipolo di uomini e donne che riuscirono a sconfiggere l’imperialismo americano ed i suoi burattini locali. Patria o morte, nel sogno di un socialismo nazionale che liberasse quell’isola che qualcuno erroneamente riteneva il suo giardino di casa, a poche miglia da Miami.
Che strano, argentini ed italiani che conoscono meglio dei cubani l’epopea di un uomo diventato un simbolo. Non più di un sogno di rivoluzione ma un logo da stampar sulle magliette. Un faro di rivolta e di orgoglio che perde col tempo il suo significato, finendo semplicemente annacquato nel merchandising e nel culto sterile della personalità. Che Guevara, Kurt Cobain e Jim Morrison. Prima di essere solisti cantavano nei Queen, giusto?
Eppure la rivoluzione continua a vivere. È sopravvissuta alla morte di Fidel Castro e a centinaia di falliti attentati alla sua persona. È sopravvissuta ad un embargo infinito e al risentimento dei gendarmi del mondo, ha saputo andare oltre la caduta del comunismo sovietico e oltre la fine del secolo dei grandi ideali. Ha saputo ricevere tre papi e mai tradire la propria idea. A Miami la pensano diversamente, ma quello che ho visto con i miei occhi si chiama dignità ed orgoglio. E non solo qui in spiaggia, anche nelle periferie della capitale.
Il Primo Maggio è vicino e fervono i preparativi per la grande parata in occasione della festa dei lavoratori. Tutta la città e tutta l’isola sono in fibrillazione. L’Havana si prepara al grande desfile de el Primero de Majo, una festività laica che coinvolge tutto e tutti. Negozi, spacci statali, case di gente comune. Tutte le vetrine ricordano questa ricorrenza magica. Se non avete mai avuto l’opportunità di assistervi, date un occhio su YouTube. Una grande kermesse dove tutta la cittadinanza festeggia i diritti dei lavoratori ottenuti dopo tanta lotta e sofferenza. Masse di persone che sventolano le bandiere in ritrovi oceanici. Una vera coesione nazionale e sociale. Chissà se ci sono costretti.
Gli universitari siedono nel parchetto interno al campus. Dall’aspetto ordinato, emanano serietà e rispetto per le istituzioni scolastiche. Gli zaini, i libri e i quaderni sono adagiati nel verde secco per il troppo sole caraibico. Immagino la scrittura ordinata degli appunti, immagino il corsivo pieno di curve e una bella calligrafia di antica eleganza. Me la sono sudata e non solo metaforicamente, la scalinata per raggiungere il parco interno all’università era di quelle imponenti. Una sorta di tempio della sapienza greco, con granitici colonnati a destra e a sinistra. Le facoltà di scienze economiche e di farmacia, se ben mi sovviene. La grande statua posta in cima, mi ricorda la Sapienza di Roma. La scritta sulla base di marmo recita “Alma Mater”. Il sole era fortissimo e mancava l’aria, nel quartiere del Vedado. Sono convinto stiano parlando di politica, forse del Primo Maggio imminente e di qualche vecchio discorso del Lider Maximo. Forse della crisi che sta colpendo il paese amico del Venezuela di Maduro o forse di come combattere il terribile bloqueo, l’embargo che frena e limita l’economia cubana da decadi e decadi. O forse semplicemente parlano di dove andare a fare serata a caccia di americane ubriache e sono io che mi sto inutilmente scervellando.
Studenti e studentesse sono seduti al fresco degli alberi, al riparo da questa primavera rovente. L’Alma Mater de l’Havana mi offre un mondo differente dall’Alma Mater dove ho studiato io, quella di Bologna. Qui gli studenti non giocano ai ribelli con il bongo sotto al braccio ed in tasca il bancomat del padre. Qui gli studenti sembrano tutti molto seri e concentrati. Consapevoli della fortuna che il popolo e lo Stato gli hanno fornito, vivono lo studio come una evidente – o apparente – missione.
A Cuba tutti lavorano e non ho visto la bancarotta imminente di uno stato fallito. Lavorano il giusto? Lavorano poco? Sicuramente nessuno si sbatte più del dovuto, lo stress è una malattia che non appartiene a questa bella gente. Camminando nelle periferie, lontano dai circuiti turistici, ho visto e respirato la voglia di vivere con quello che si ha. In ogni piccola cosa, in tutte quelle persone che si arrabattano per tirare avanti nelle diverse situazioni. Nei tassisti a pedali, nei buttadentro dei ristoranti, nelle signore delle pulizie e nelle affittacamere delle casas particulares. La gente è in ordine e le strade sono pulite. Lavorano poco ma lavorano tutti. Per farmi fare un viaggio in bus ci sono almeno dieci dipendenti. Cinque lavoratori sono addetti alla biglietteria. C’è una sola cassa funzionante ma gli altri quattro guardano e offrono supporto. Un altro dipendente mi carica lo zaino nella stiva, uno mi fa il check-in, uno mi sigla il biglietto come utilizzato e poi ci sono ben due autisti per sole tre ore di viaggio. E dimenticavo il tuttofare sul pullman, un uomo la cui mansione sembra quella di contare noi viaggiatori dopo le soste comandate nei punti di ristoro convenzionati.
Cuba è tante cose. Cuba è l’orgoglio del ragazzo che mi accompagna in aeroporto con la sua vecchia Lada sgangherata. L’avevo fermato apposta, buttandomi in mezzo alla strada. Il gioiello Made in Togliattigrad a fatica raggiunge i quaranta all’ora e ci sorpassano anche vecchissimi scooter rumorosi ed inquinanti. È un bel ragazzo, muscoloso, curato ed in canotta. Ha studiato come professore di ginnastica ma non esercita. Lavora come fisioterapista con gli anziani e mi racconta come essi siano pazienti squisiti, perchè “si accorgono del bene che fai per loro”. Deve arrotondare facendo il tassista abusivo e mi prega di dire che siamo amici, in caso ci dovessero fermare. Come sempre con i cubani, parliamo di baseball. L’Italia ha fatto bene ai recenti campionati mondiali e l’intero movimento sta crescendo. Tutti i cubani, ogni qual volta si torna sul tema, si complimentano. Il baseball è lo sport nazionale cubano e lo sport più praticato nella mia famiglia, lo sport con cui sono cresciuto. Bizzarro, per un italiano. Padre e madre sono stati dei campioni, davvero. Io, ovviamente no. Preferivo leggere mattoni russi e sognare viaggi lontani, consumando con lo sguardo il mio primo Atlante Geografico: trovavo sempre una scusa per saltare gli allenamenti. Però ricordo bene come gli allenatori fossero sempre cubani. Loro sono più bravi, hanno una marcia in più. Come per i brasiliani nel mondo del calcio, è difficile trovarne uno davvero scarso. Sapevano insegnare, stare con i giovani e avevano quello sport nel sangue. Lo racconto al mio tassista, aprendo lo scrigno dei ricordi. Lui ride e mi dice che ora le cose sono cambiate. Il suo sorriso denota amarezza e sconfitta. Ormai non ci sono più allenatori capaci in tutta l’isola. Per ventimila dollari, non solo i migliori ma anche i medi, lasciano la propria patria per andare sul diamante in Europa o in USA. Campionati minori ma che pagano bene e permettono di vivere senza pensieri. Cuba sta perdendo questa supremazia sportiva, lo dice il ragazzo sconsolato, aprendomi ad un vortice di pensieri. Io rifletto, tenendolo per me, che forse questa moderna tratta degli schiavi/fuga dei cervelli colpirà anche la famosa categoria dei medici. Formati in Cuba, dispersi nel mondo.
Il tassista mi saluta dicendomi che domani è il Primo Maggio. Inizia a spiegarmi di che si tratta e lo fermo: anche nel mio Paese si festeggia questo traguardo, sebbene con modalità infelici che trovano il proprio spannung narrativo nel trito e ritrito evento del concertone. Se ne stupisce così tanto da farmi prendere male.
Cuba è un sogno. Infranto? Non per me. Io ho respirato dignità ed orgoglio, in un clima di serenità e di buona vita.
Sono stato a Cuba a fine aprile 2017.
@brillabbestia
Cuba è un sogno. Infranto? Non per me. Io ho respirato dignità ed orgoglio, in un clima di serenità e di buona vita.