
Non va ignorato il comportamento dell’Europa nei confronti della Turchia e del suo popolo. La responsabilità non è solo da una parte.
Doveva diventare un passo storico e invece rischia concretamente di trasformarsi in un’occasione persa. La strada della Turchia per il suo ingresso in Unione Europea appare sempre di più in salita. Ma le colpe sono tutte di Ankara? E, soprattutto, sono stati versati fiumi d’inchiostro per sviscerare tutti gli atteggiamenti, le posizioni e i dubbi con cui il Club di Bruxelles si approcciava all’argomento. Ma qualcuno ha mai pensato a fare il contrario, ossia a mettersi nei panni prima dei turchi e poi del governo di Ankara? Mi pare di no, almeno, non con sufficiente convinzione.
Sulla carta, dal 2003, anno in cui partì concretamente il cammino negoziale, il percorso della Mezzaluna verso l’adesione è stato costellato da frenate, speranze, tentativi di dialogo e ammonimenti che si susseguivano l’un l’altro con una frequenza che molti, almeno in Turchia, hanno iniziato a pensare che fossero tutti modi per ritardare il più possibile il momento delle decisioni. E non si può dare loro torto. Una cosa che ha sempre, profondamente infastidito e fatto riflettere la popolazione era la mancanza di coesione all’interno dei Paesi membri. La coerenza dei governi italiani, per esempio, che si sono succeduti, seppur di segno politico opposto, ha fatto guadagnare non poca credibilità all’Italia, e l’ha aiutata, e molto, nella costituzione di relazioni con la Mezzaluna eccellenti sia sotto il profilo politico che economico e culturale.
Lo stesso non possono dire altre nazioni, come Francia, Olanda, Austria e Germania, che sono state spesso percepite non solo come ostili all’ingresso turco, ma anche come luoghi poco disposti all’arricchimento reciproco e alla corretta integrazione di Ankara nell’Unione. Questo è successo perché il club di Bruxelles per primo non sapeva come regolarsi nei confronti del capitolo Turchia e non solo per l’aspetto religioso. La Mezzaluna portava in dote, oltre a tante potenzialità e una posizione strategica, anche una popolazione di oltre 70 milioni di persone, con un’età media di 28 anni, dato in controtendenza rispetto a molti paesi del Vecchio continente. Sarebbe diventato lo Stato più popolato dell’Unione, con tutte le problematiche che ne conseguono a partire dal suo peso nel Parlamento europeo, fino ad arrivare alla ripartizioni dei fondi che, per alcuni settori, come quello dell’agricoltura avrebbero penalizzato altri paesi fra i quali proprio la Francia. Quindi, viene spontaneo pensare che, se la strada della Turchia sia stata sbarrata o quanto meno resa ancora più in pendenza, ciò è avvenuto sia perché qualche governo ha pensato ai propri interessi nazionali sia perché l’impatto di Ankara, con le sue potenzialità, non sarebbe stato esattamente indolore.
Purtroppo le scelte politiche si fanno spesso considerando i numeri e non le persone e chi si è trovato a subirne le conseguenze è stato soprattutto il popolo turco. Se il sentire del popolo europeo è stato costantemente monitorato da Bruxelles e si è sempre riflettuto su che conseguenze avrebbe potuto avere l’accesso o il non accesso della Turchia in Europa, la stessa operazione non è stata fatta per l’altra parte chiamata in causa e stiamo parlando di oltre 70 milioni di persone. Il risultato più immediato è stato quello di creare un clima di sfiducia nei confronti del capitolo “Ingresso in Unione europea”. Dal 2003, l’AkP, il Partito islamico moderato per la Giustizia e lo Sviluppo, che guida il Paese dal 2002, ha costantemente monitorato attraverso sondaggi il sentire della popolazione nei confronti del processo di adesione. In ogni momento i favorevoli sono stati sempre più dei contrari, con percentuali che variavano a seconda della rilevazione. Ma il dato più interessante è che pur manifestando assenso nei confronti dell’ingresso di Ankara nel club di Bruxelles, la maggioranza era anche convinta che questo non sarebbe mai avvenuto. La motivazione, anche nei momenti in cui il governo turco sembrava avere abbandonato il tavolo negoziale, era indicata in un sostanziale disinteresse da parte del Vecchio continente. In sintesi: non ci vogliono e non ce lo vogliono nemmeno dire. Le conseguenze su un popolo come quello turco, che ha una grande consapevolezza della sua identità nazionale e che si è sempre sentito vicino ai valori europei, sono state devastanti e hanno prodotto da una parte un vero e proprio atteggiamento di chiusura, dall’altra una sorta di volontà di autoaffermazione, che ha finito per favorire l’attuale presidente Recep Tayyip Erdoğan nella sua virata in politica estera a favore della sponda orientale del Mediterraneo.
A questo processo in realtà ha contribuito, e non poco, anche la stampa nazionale, storicamente a ricaduta molto interna, sempre pronta a far passare le richieste di Bruxelles più come ricatti, soprattutto su capitoli come quello dell’isola di Cipro, che come condizioni per l’ingresso. Però non è un’esagerazione dire che, se il governo turco a un certo punto si è distaccato dalla causa europea, nei fatti e a volte anche a parole, l’Europa non ha fatto nulla per far capire alla Turchia che la riteneva parte integrante e importante di un progetto.
Bruxelles è stata rigida quando avrebbe dovuto mostrarsi più flessibile mentre ha chiuso gli occhi davanti a questioni sulle quali, proprio per rispetto dei valori europei, sarebbe dovuta intervenire e con forza. Il “nodo Cipro” è stato usato per anni sostanzialmente per bloccare il cammino di adesione. Da tutte e due le parti, c’era una consistente rigidità delle posizioni. La Turchia non avrebbe mai riconosciuto la parte greca spaccata in due dall’intervento delle armate di Ankara nel 1974 e la comunità internazionale non era disposta a fare nessun tipo di concessione sulla Repubblica turca di Cipro Nord, che viene riconosciuta praticamente solo dalla Mezzaluna. La totale mancanza di visione politica, ha fatto percepire questo stallo non tanto come un ostacolo insuperabile, quanto come una scusa perfetta. Di contro, Bruxelles ha colpevolmente taciuto davanti a troppi eventi che ben testimoniavano il profondo disagio all’interno del Paese e sui quali invece avrebbe dovuto essere inflessibile: scrittori e giornalisti perseguitati, le denunce della minoranza curda, i timori per la tenuta della democrazia interna. Persino in occasione della rivolta di Gezi Parkı, quando migliaia di persone che avevano occupato un parco in maniera pacifica per chiedere più democrazia e furono cacciati dalla polizia con brutalità, Bruxelles decise di intervenire con una semplice dichiarazione dopo giorni.
Dal 2010, complice probabilmente l’ambizione personale, l’attuale Presidente della Repubblica, Erdoğan, ha iniziato a condurre una politica estera sempre più autonoma, rivolta verso il mondo musulmano interessato alle primavere arabe prima e all’alleanza con le monarchie del Golfo poi. L’ultimo atto è stata la degenerazione con l’ingresso di Ankara non nella Ue, ma nella guerra fra islam sciita e sunnita e la lotta all’interno dell’islam sunnita stesso. La gestione scellerata della crisi siriana, il rapporto ambiguo con Isis, ha portato la Turchia a diventare un Paese sempre più instabile, che, per voler pesare sugli equilibri della regione, rischia di perdere il proprio. La dimostrazione di questo sono stati i tragici attentati di Suruç, Ankara e Istanbul. È inevitabile pensare che, forse, con una gestione diversa dell’ingresso della Turchia nella Ue, oggi probabilmente avremmo anche una diversa risposta al terrorismo internazionale.
Non va ignorato il comportamento dell’Europa nei confronti della Turchia e del suo popolo. La responsabilità non è solo da una parte.