A un mese dalle presidenziali del 28 luglio, il conflitto intorno al risultato ufficiale cresce. Oggi, mercoledì 28 agosto, opposizione e forze di governo scendono in piazza, mentre a livello internazionale le soluzioni scarseggiano. Il Venezuela di nuovo sull’orlo dell’isolamento e la crisi sociale.
È scaduto ieri, 27 agosto, il periodo previsto dalla legge elettorale venezuelana per la presentazione di tutti i verbali che convalidano il risultato ufficiale delle elezioni dello scorso 28 luglio. Ma di prove sulla vittoria di Maduro, ancora non ce ne sono, mentre le principali istituzioni dello stato si arroccano a difesa dell’attuale presidente. Il Tribunale Supremo di Giustizia del Venezuela ha convalidato ufficialmente i risultati pubblicati dal Consiglio Nazionale Elettorale (CNE) al termine della giornata elettorale, secondo i quali Nicolás Maduro avrebbe vinto con un ampio margine. Un risultato che contraddice tutti i sondaggi precedenti al giorno dei comizi, inficiato da centinaia di denunce di brogli, e soprattutto non supportato dalla pubblicazione dei verbali dello scrutinio, che secondo l’opposizione indicherebbero invece una chiara vittoria del candidato Edmundo Gozález Urrutia. Contro di lui proprio nelle ultime ore la procura venezuelana ha invece aperto un’indagine per istigazione alla violenza e usurpazione di funzioni pubbliche, e molto probabilmente verrà spiccato un mandato di cattura contro il principale candidato dell’opposizione che si è rifiutato di comparire presso il Ministero Pubblico.
La questione dei verbali resta comunque cruciale. Il CNE ha reso pubblici i risultati attraverso due emissioni televisive, con l’80% e poi con il 97% dei verbali scrutinati, ma a differenza di quanto successo durante gli ultimi 25 anni di governo chavista, non ha fornito i documenti emessi dalle autorità elettorali. Mentre quelli presentati dall’opposizione, ottenuti a forza di insistenza – e spesso con la forza – alla chiusura dei seggi, sembrerebbero essere più attendibili secondo gli esperti.
La posizione del massimo tribunale venezuelano, largamente controllato dagli alleati di Maduro, ha suscitato solo ulteriori condanne al processo elettorale venezuelano. Il dipartimento di stato Usa sostiene che la sentenza non “ha alcuna credibilità, data la schiacciante evidenza che González ha ricevuto la maggioranza dei voti il 28 luglio”. Intanto Washington prepara una lista di funzionari venezuelani passibili di ulteriori sanzioni nei prossimi giorni nel caso in cui la situazione non si risolva.
Brasile e Colombia, i due principali governi della sinistra latinoamericana, temporeggiano, e fino a pochi giorni fa insistevano sulla pubblicazione dei verbali per riconoscere effettivamente i risultati. Resta da vedere quale sarà la reazione di Brasilia e Bogotà, ora che i tempi legali sono scaduti. La settimana scorsa Lula aveva anche proposto l’indizione di nuove elezioni presidenziali per risolvere il conflitto, incassando però lo sprezzante rifiuto di Maduro, che ha definito i tentativi di mediazione del brasiliano come “diplomazia da microfono”.
Una posizione simile al tandem brasiliano-colombiano è stata assunta dal presidente del Messico, Manuel López Obrador: “Il Tribunale sostiene che ha vinto l’elezione Maduro e nello stesso tempo raccomanda che si rendano noti i verbali. Aspettiamo che i verbali siano resi noti per fare altrettanto”, ha sostenuto in conferenza stampa. Intanto Argentina, Perù, Paraguay, Uruguay, Costa Rica e Panama, paesi che hanno di fatto rotto le relazioni diplomatiche con Caracas nell’ultimo mese, hanno pubblicato un comunicato congiunto in cui ratificano la richiesta di un conteggio indipendente e criticano le azioni portate avanti da Maduro.
Una delle posizioni più rilevanti in tutta questa faccenda è sicuramente quella del Generale Vladímir Padrino López, a capo delle Forze Armate Bolivariane, che ha ribadito la “assoluta lealtà” dell’esercito al presidente Maduro, sgombrando il campo così da qualunque tipo di speculazione sulla solidità della cosiddetta “alleanza civico-militare-poliziale” su cui poggia il governo Maduro. Si apre così quello che alcuni analisti chiamano un “legalismo autocratico”, in cui le regole della democrazia vengono utilizzate nella loro versione più tecnicistica per dare sostegno a decisioni antidemocratiche.
C’è da dire, in ogni caso, che neanche l’adesione alle regole della democrazia da parte dei principali leader dell’opposizione venezuelana è poi così solida. La coalizione oppositrice ha accusato il chavismo di brogli in tutte le elezioni realizzate dal 2013 in avanti (tre presidenziali, due legislative, tre referendum, due statali e quattro municipali), salvo in quelle in cui ha ottenuto risultati soddisfacenti. A ciò si aggiungono i tentativi di golpe già portati avanti (nel 2002, nel 2014, nel 2017, nel 2019 e nel 2020) su cui si monta la narrativa di Maduro, secondo cui l’opposizione rappresenta una minaccia alla sicurezza del paese ed è uno strumento dell’imperialismo statunitense.
Molti settori della società venezuelana diffidano dell’onestà dei leader dell’opposizione, specialmente nel caso dell’onnipresente Corina Machado, in passato rappresentante del settore più ultra della destra venezuelana. Oggi però, anche gli alleati internazionali della sinistra sono sempre più scettici sulla legittimità del governo venezuelano e i risultati “poco credibili”, come sostenne il presidente cileno Gabriel Boric, delle elezioni del 28 luglio.
La maggior parte delle manifestazioni anti-governative subito dopo la proclamazione della vittoria di Maduro sono partite proprio da quei quartieri popolari che in passato sono stati bastioni del chavismo, e molti ex funzionari del Partito Socialista Unito del Venezuela ed esponenti di spicco del chavismo hanno preso le distanze dalle decisioni prese da Maduro nelle ultime settimane.
La situazione per i ceti medio-bassi venezuelani poi, è tutt’altro che positiva. I salari medi si aggirano intorno ai 10 dollari mensili, compensati grazie a buoni dello stato che li portano a 120 o 130 dollari, appena sufficienti a garantire una vita decente. Pensioni, contributi e vacanze vengono però calcolati sul salario di base, risultando insufficienti. Sanità e istruzione pubbliche sono totalmente de-finanziate: le scuole funzionano solo poche ore alla settimana e lo stesso governo, promotore di una delle leggi sul lavoro più all’avanguardia del mondo, incita oggi i maestri ad aprire piccoli market-place online per arrotondare i propri stipendi.
Da diversi mesi a Caracas e in altri stati venezuelani non c’è sufficiente acqua, e chi può si è rifornito di cisterne da 500 dollari l’una per garantirsi acqua potabile in casa. Proprio ieri l’ennesimo blackout del sistema elettrico ha paralizzato l’attività in buona parte del paese, e il governo ha risposto con nuove accuse di terrorismo contro l’opposizione. Negli ospedali pubblici sono i pazienti a dover comprare tutti i materiali per le pratiche mediche, e un’operazione può raggiungere costi superiori ai 3.000 dollari, pur essendo un servizio gratuito per legge. L’alternativa privata è accessibile solo alle classi più agiate, anche se sempre più lavoratori si sforzano per pagare scuole e assicurazioni sanitarie private pur di garantire un servizio degno alla propria famiglia.
Una situazione comunque migliore rispetto al periodo 2017-2020, quando le sanzioni Usa e la politica di “massima pressione” voluta dall’allora presidente Donald Trump mise in ginocchio l’economia venezuelana e portò all’esplosione del fenomeno migratorio. Per affrontare la crisi Maduro decise di andare nella direzione opposta alla propria retorica politica: apertura delle importazioni, deregolazione dei prezzi, “dollarizzazione” de facto di buona parte dell’economia. Una svolta ultra-neoliberista insomma che ha però giovato temporaneamente alle classi medie e i lavoratori dipendenti rafforzando il consumo.
La crisi politica aperta dalle elezioni del 28 luglio rischia ora di far ripiombare il paese nell’isolamento internazionale da cui era uscito parzialmente e a fatica. Maduro non è solo sotto pressione da parte dell’opposizione e delle principali potenze regionali, ma anche dei settori che sono stati ampiamente fedeli a Chávez e al suo modello durante più di vent’anni. Le scelte intraprese nelle ultime ore lasciano intravedere la possibilità di un irrigidimento della posizione del chavismo di governo col sostegno delle forze armate e polizia, oltre che di alcune potenze come Russia, Cina e Irán. Bisognerà però seguire le vicende legate al grado di consenso interno, specialmente nei settori popolari, per capire quanto dovrà irrigidire ancor più la propria politica il governo per riuscire a sostenere il proprio potere.
La questione dei verbali resta comunque cruciale. Il CNE ha reso pubblici i risultati attraverso due emissioni televisive, con l’80% e poi con il 97% dei verbali scrutinati, ma a differenza di quanto successo durante gli ultimi 25 anni di governo chavista, non ha fornito i documenti emessi dalle autorità elettorali. Mentre quelli presentati dall’opposizione, ottenuti a forza di insistenza – e spesso con la forza – alla chiusura dei seggi, sembrerebbero essere più attendibili secondo gli esperti.