Sono già 96 i casi confermati, molti gli adolescenti. L’epicentro del contagio è in una regione segnata dai conflitti fra gruppi armati. Fattore che rende più difficile arginare l’epidemia, che rischia di sconfinare in Uganda. Ma il vaccino questa volta può essere l’arma vincente
Il numero delle vittime del nuovo focolaio di ebola scoppiato nella Repubblica Democratica del Congo aumenta di giorno in giorno. Le ultime stime, diffuse questa mattina dal ministero della Salute congolese, riportano 96 casi confermati e 55 decessi.
Questa volta l’epidemia di Ebola ha coinvolto la provincia orientale del Nord Kivu, dove è cominciata lo scorso primo agosto e dove ha già colpito numerosi operatori del servizio sanitario congolese, accorsi nell’area per tentare di arginare il contagio.
Anche due bambini sono già morti a causa della malattia, mentre l’Unicef ha rilevato che nel corso di questo nuovo focolaio gli adolescenti rappresentano una percentuale insolitamente elevata di persone colpite dal virus.
L’unità di trattamento installata da Medici Senza Frontiere nel villaggio agricolo di Mangina, situato 30 chilometri a sud-ovest della città di Beni e considerato l’epicentro del contagio, sta attualmente curando sei bambini colpiti dalla malattia o sospetti, che necessitano di particolare attenzione.
La situazione è resa ancora più critica dal fatto che il Nord Kivu è una delle aree più instabili della regione, dove operano numerosi gruppi armati e dove si trovano circa un milione di sfollati.
È la prima volta che le autorità sanitarie congolesi si trovano a dover gestire un’epidemia di Ebola in una zona di conflitto, il che rende la risposta più difficile, perché riduce la capacità di movimento e aggrava il problema cronico dell’accesso limitato all’assistenza sanitaria in Congo.
Potrebbe quindi essere difficile applicare le misure necessarie per controllare l’epidemia, che rischia addirittura di estendersi oltre confine poiché l’area colpita è molto vicina all’Uganda, dove le autorità di Kampala hanno chiesto ai loro cittadini di tenere elevato il livello di allerta.
Da quando nel 1976 fu scoperto il virus sull’omonimo fiume, la Repubblica democratica del Congo ha subito dieci epidemie di Ebola nella quali hanno perso la vita complessivamente quasi 900 persone.
L’ultimo focolaio del virus nel Paese era stato registrato tra l’inizio dello scorso aprile e metà maggio nella provincia occidentale dell’Equatore, che dopo aver registrato 33 decessi, solo da pochi giorni è stata dichiarata Ebola-free.
Tuttavia, il ministero della Salute di Kinshasa ha precisato tramite sequenziamento genetico che quest’ultima epidemia è causata dal ceppo Zaire Ebolavirus, che non è correlato alla recente epidemia nella Provincia di Equatore. Escludendo così qualsiasi collegamento con quella attuale nel Nord Kivu.
Secondo Peter Salama, responsabile per le Emergenze dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), come nella maggior parte delle epidemie passate – compresa quella che tra il 2014 e il 2016 ha flagellato Liberia, Sierra Leone e Guinea, uccidendo più di 11.300 persone – anche in questo caso molto probabilmente il virus ha cominciato a diffondersi rapidamente, dopo che una delle prime vittime è stata sepolta dai familiari ignari del fatto che toccare il corpo del defunto li avrebbe infettati. Salama ha inoltre precisato che l’OMS ha accertato che sette membri della famiglia di una donna di 65 anni, a cui era stata data una sepoltura non protetta, hanno contratto il virus.
Per comprendere meglio l’emergenza in corso nella regione orientale del Congo Kinshasa abbiamo chiesto ausilio alla dottoressa Roberta Villa, medico e giornalista scientifico, che ha seguito da vicino l’evoluzione dell’ultima grande epidemia in Africa occidentale.
«La trasmissione dell’ebola, chiamata anche febbre emorragica, avviene anche da uomo a uomo, ponendo a rischio i famigliari che entrano a contatto con i malati», spiega la dottoressa che ricorda anche come, a differenza di quella attuale l’epidemia che si diffuse in Africa occidentale colpì un’area che prima non era mai stata interessata dal virus e di conseguenza le popolazioni locali si trovarono del tutto impreparate nel gestire l’emergenza.
«Un numero così alto di vittime», precisa la dottoressa Villa, «fu determinato dal fatto che, fino a quel momento, le popolazioni locali non avevano avuto alcuna esperienza con l’Ebola ma soprattutto dal ritardo nell’intervento all’inizio dell’epidemia, ignorando l’allarme lanciato dalle Ong che operavano in loco. I primi casi di Ebola furono segnalati in Africa Occidentale a gennaio 2014, ma vennero confermati a marzo e l’Oms dichiarò l’emergenza solo ad agosto dello stesso anno».
La dottoressa Villa spiega anche che la gestione iniziale dell’epidemia non fu corretta: «Inoltre, dopo il manifestarsi dei primi casi, i pazienti non vennero isolati e la popolazione stentò a capire quello che stava succedendo, senza essere informata su che cos’è l’Ebola e sui modi in cui fosse possibile proteggersi dal contagio. Non a caso, lo storico statunitense John M. Barry, nel suo voluminoso saggio sull’influenza spagnola del 1918, scrisse che contro la prossima pandemia l’arma più importante sarebbe stata un vaccino, mentre la seconda la comunicazione».
Ma la differenza fondamentale, conclude Roberta Villa, è che «nel caso odierno del Congo, l’Ebola è purtroppo ricorrente e grazie a un vaccino sviluppato proprio a partire dall’epidemia in Africa occidentale e sperimentato con successo alla fine del 2016, il virus adesso può essere contrastato con maggiore efficacia».
E da quanto reso noto dall’Oms, le prime 3.220 dosi sono già state inviate nel Nord Kivu.
@afrofocus
Sono già 96 i casi confermati, molti gli adolescenti. L’epicentro del contagio è in una regione segnata dai conflitti fra gruppi armati. Fattore che rende più difficile arginare l’epidemia, che rischia di sconfinare in Uganda. Ma il vaccino questa volta può essere l’arma vincente