Di populismo, filosofia contemporanea, e wrestling professionistico
Anche se può sembrare incredibile, secondo studi storici il Wrestling professionistico di Hulk Hogan, The Rock, John Cena e Rey Mysterio affonda le proprie radici nell’Europa del tardo Ottocento. Al contrario di oggi però, durante le sue prime decadi di vita sulle carovane itineranti dei circhi di villaggio questa lotta “circense” aveva sempre mantenuto una totale riserbo sulla natura “concordata” delle esibizioni. Le trame dei vari incontri venivano rigorosamente programmate passo dopo passo e registrate all’interno di un documento segreto, una sorta di copione teatrale, accessibile solo ai contendenti: il “kayfable”.

Anche se può sembrare incredibile, secondo studi storici il Wrestling professionistico di Hulk Hogan, The Rock, John Cena e Rey Mysterio affonda le proprie radici nell’Europa del tardo Ottocento. Al contrario di oggi però, durante le sue prime decadi di vita sulle carovane itineranti dei circhi di villaggio questa lotta “circense” aveva sempre mantenuto una totale riserbo sulla natura “concordata” delle esibizioni. Le trame dei vari incontri venivano rigorosamente programmate passo dopo passo e registrate all’interno di un documento segreto, una sorta di copione teatrale, accessibile solo ai contendenti: il “kayfable”.
Ancora nell’America di inizio anni Ottanta, la natura segreta dello show rendeva l’accesso a questo mondo una sorta di iniziazione graduale. Gli aspiranti wrestler venivano allenati atleticamente e seguiti accuratamente in modo da capire se erano pronti per accedere ai “misteri” della disciplina . Prestanza fisica e carisma sul ring non bastavano; ai wrestler sarebbe stato assegnato un “personaggio” da interpretare lungo le story-line dei vari incontri seguendo scrupolosamente il kayfable. Ma la parte più difficile veniva dopo: al fine di mettere in sicurezza la segretezza degli incontri il wrestler professionista era tenuto a continuare a “essere” il proprio personaggio anche nella propria vita privata; a chiamarsi come lui e perfino di comportarsi come lui in pubblico. Ai novizi veniva perciò chiesto di trasformarsi in personaggi teatrali e circensi in modo permanente: una scelta notevole, che richiedeva non pochi sacrifici e disciplina.
Intendiamoci, non che il carattere “concordato” degli incontri non fosse una sorta di “segreto aperto” anche per il pubblico. Ma il silenzio e l’ambiguità degli organizzatori su questo punto lasciavano un margine di dubbio su fino a che punto si trattasse davvero solo di finzione.
Le cose iniziano però a cambiare a circa metà degli anni Ottanta, quando Vincent MacMahon, indiscusso padre-padrone del Wrestling professionistico moderno, ebbe una intuizione geniale che cambierà per sempre la storia di uno dei più lucrativi show-business d’America: la natura profondamente “relativa” del concetto umano di verità.
In una seria di dichiarazioni tra gli anni Ottanta e Novanta, MacMahon lascerà infatti trasparire in modo sempre più esplicito il carattere interamente “circense” dell’intero sport: gli incontri erano decisi a tavolino, mossa per mossa, addirittura battuta per battuta, con un intero gergo sviluppato nei decenni precedenti per fare in modo che i due contendenti potessero comunicare senza che il pubblico capisse ciò che si dicevano. Pochissimo spazio era lasciato all’improvvisazione, che comunque doveva restare entro certi limiti e non cambiare la trama principale dello spettacolo, a cominciare dal vincitore finale. Nell’arco di una decade MacMahon mette così fine al “Grande Tabù”, ovvero la segretezza sulla vera natura di questo sport che sport non è. Il tabù che in passato veniva considerato come necessario per la stessa esistenza del wrestling. Com’è possibile, si chiedevano gli impresari, che il pubblico, avendo la certezza che ciò a cui assiste è tutta finzione concordata, continui ad avere interesse negli incontri?
Secondo MacMahon questa consapevolezza non avrebbe invece avuto alcun peso. Anzi, avrebbe permesso agli “sceneggiatori” dei combattimenti di inserire nuovi elementi esagerati, spettacolari, al di là di ogni verosimiglianza. E il pubblico avrebbe guardato comunque, anzi sarebbe aumentato, abbagliato dai nuovi effetti speciali. Avrebbe continuato a tifare per questo o per quel lottatore, trattenendo il respiro a ogni mossa, ruggendo a ogni colpo inferto con attrezzi sempre più improbabili, e contando insieme all’arbitro i dieci secondi che segnano la sconfitta del contendente a terra, come se tutto fosse reale.
Vincent MacMahon aveva ragione. Nei decenni seguenti la sua lega di Wrestling, la World Wrestling Federation (W.W.F.), è diventata la regina incontrastata di questo “sport” in tutto il Nord America, inaugurando un brand che si è velocemente sparso anche nel resto del mondo con fiere dedicate, videogiochi, esibizioni e tour mondiali. MacMahon, che nel frattempo ha inaugurato un proprio personaggio da ring (una parodia di sé stesso crudele padre padrone del business che sfida i suoi stessi dipendenti), aveva infatti compreso la natura intrinseca tra realtà e finzione insita nel Wrestling professionistico, una natura che ha un eco profondo in molte dinamiche umane: il wrestling come una “bull session” resa spettacolo.
La traduzione migliore per bull session in italiano è probabilmente qualcosa come “chiacchierata da bar”, “discorso fra uomini” o, meglio ancora, “cazzeggio fra uomini”. Sia in inglese (per la parola bull=toro), sia soprattutto in italiano presenta una connotazione di genere esplicitamente maschile a causa delle situazioni fortemente stereotipate in senso “virile” ad essa associate, ma è in realtà tranquillamente applicabile anche all’universo femminile. Per capirci, una classica bull session è quella conversazione tra (di solito) giovani maschi dove si riportano in modo esplicito le rispettive esperienze sessuali (ma anche sportive, lavorative, ecc.) così da cercare e trovare supporto e incoraggiamento nel resto del branco (di solito sotto forma di virili pacche sulle spalle, grasse risate e indecenti quantità di alcol). In quei momenti tutti sono totalmente consapevoli che gran parte di ciò che viene detto, se non del tutto falso, è quantomeno molto esagerato. Ma a nessuno importa nulla. Il punto della bull session non è restituire un fedele resoconto della carriera sessuale, sportiva, lavorativa di ognuno ma, nelle parole del filosofo americano Harry Frankfurt, “provare a esprimere diversi pensieri e atteggiamenti al fine di capire cosa si prova a dire certe cose ad alta voce e a osservare cosa gli altri rispondono, senza che ciò che viene detto debba per forza rispecchiare pienamente la verità”. Quello che ne risulta è una sorta di “candore” di fondo libero dalle catene del reale in cui le persone dicono e si atteggiano come desiderano, “sperimentando nuovi approcci all’argomento in discussione” (il timido che si atteggia a macho, ma magrolino che si atteggia a grande atleta, ecc.), libere dall’inibizione causata dal dover rimanere pedissequamente fedeli alla verità. Durante una bull session i partecipanti “fanno così in modo che sia possibile godere di una certa irresponsabilità, in modo che le persone siano incoraggiate a esprimere ciò che hanno in mente senza troppa ansia di doverne poi rispondere”. L’intuizione di MacMahon era proprio insita in questa semplice dinamica: alle persone non interessava nulla dell’autenticità del combattimento fin tanto che il combattimento fosse in grado di soddisfare i loro desideri e la loro immaginazione. Finché fosse stato in grado di “sperimentare nuovi approcci all’argomento in discussione”, che nel caso del wrestling potrebbe essere tradotto nel sicuramente poco verosimile ma indubbiamente spettacolare saltarsi addosso da una scala o fare irruzione nell’arena alla guida di un tir.
Nel suo subconscio, MacMahon forse intuì anche che in quegli anni, a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, il pubblico era ancora più pronto che in passato ad accettare il compromesso di una sorta di “realtà agli steroidi”. Un pubblico, quello del wrestling, tradizionalmente radicato nella provincia bianca americana e nei sobborghi delle città, legato a gruppi sociali che da oltre un decennio avevano già iniziato a vedere declinare la propria centralità e il proprio potere relativo all’interno della società americana. Non erano più i tempi degli eroi alla Johm Wayne, bianchi, rurali, solidi, invincibili. Mentre le elite urbane e finanziarie prendevano sempre più il volo, il cittadino bianco medio della provincia e dei sobborghi conservava ancora il ruolo di protagonista dell’immaginario del cinema popolare, ma non più come vincente rappresentante dell’America tradizionale, ma in quanto antieroe perdente e declinante, come il Bruce Willis-John McLain di Die Hard (mezzo alcolizzato, squattrinato, rifiutato dalla famiglia), che, nonostante tutto, poteva ancora essere un eroe scalcinato.
Erano gli stessi anni della diffusione a macchia d’olio degli steroidi e degli anabolizzanti, l’altro grande “segreto aperto” del mondo del wrestling e del culturismo professionistico. Show finto, muscoli finti, uno sport-non-sport che diventa presto un sinonimo della nuova psicologia della provincia e dei sobborghi americani (e non solo). Come i muscoli, anche lo stile di vita delle classi bianche medio-basse comincia a gonfiarsi artificialmente, per mantenere un’immagine vincente e al passo con le elite urbane in furiosa crescita. Si comincia così a comprare a debito case, macchine e vacanze grazie a un mercato del credito sempre più semplice e de-regolarizzato. Per avere un’idea della divaricazione tra “illusione vincente” e “realtà perdente” che struttura questa nuova mentalità non c’è bisogno di leggere complessi trattati di sociologia o lunghe ricerche etnografiche. Basta guardare “Beyond the Mat”, il documentario realizzato nel 1999 da Barry W. Blaustein che racconta le vite reali, fatte di alcolismo, droghe e famiglie sfasciate, di alcuni dei più grandi eroi del wrestling degli anni Novanta. Ed è così, passando dallo show-business fino al mercato immobiliare, che lentamente la cultura dell’illusione gonfiata e vitaminizzata si è fatta lentamente stile di vita, si è fatta mentalità: è così che il wrestling si è fatto politica.
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Meglio ancora, per dirla con Harry Frankfurt, è in questi anni che si gettano le basi di una forma nuova di politica con cui soprattutto il Partito Repubblicano americano flirterà per almeno due decenni fino a venirne esso stesso inghiottito con l’ascesa prima del Tea Party e poi di Donald Trump: la “bullshit” di massa.
In questi ultimi tempi molti giornalisti, studiosi e factchecker hanno fatto molta fatica a spiegarsi la totale impermeabilità di alcuni gruppi sociali alla “voce della ragione” — ovvero quegli studi e rapporti redatti dagli esperti che confutano sistematicamente la maggior parte delle affermazioni dei grandi capipopolo del populismo moderno (per maggiori delucidazioni in materia rimando a Newsroom). È un fenomeno al quale in Italia assistiamo increduli ormai dai prodromi dell’era berlusconiana ma che oggi vediamo spargersi senza soluzione di continuità in tutta Europa. Nel 2011 collaborai per alcuni mesi con FactcheckEU, un progetto sperimentale che riuniva molti siti di factchecking di tutta Europa (co-fondato dall’italiana Pagella Politica) e che aveva creato una piattaforma online per monitorare e verificare le dichiarazioni dei politici di tutto il continente durante la campagna elettorale per il parlamento europeo. In diverse occasioni mi capitò di dover verificare le affermazioni degli ormai noti Nigel Farage, Boris Johson e altri politici britannici meno famosi, che andavano già ripetendo a macchina alcune delle balle diventate palesi dopo il referendum sulla Brexit. Ma fu una affermazione del nostrano Beppe Grillo che scatenò in me la voglia di capire di più di questo fenomeno apparentemente inspiegabile e che oggi sta conquistando la politica del mondo occidentale. Gran parte della campagna del Movimento 5 Stelle di quei mesi si incentrava infatti sulla questione del Fiscal Compact: a sentire Grillo, una volta entrato in funzione, esso avrebbe comportato l’obbligo per l’Italia a tagliare 50 miliardi di spesa pubblica ogni anno per vent’anni.
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Dopo aver studiato nel dettaglio gli articoli del Fiscal Compact e aver preparato alcune proiezioni sui tagli futuri dovetti scrivere un lungo articolo per il sito poi ripreso da Linkiesta. Perché non si trattava di tagli di 50 euro all’anno per vent’anni, ma tagli per circa 20 miliardi per circa due anni (o poco più in caso di crescita scarsa). Intendiamoci, Grillo non è certo l’unico politico che dice balle in pubblico. Di numeri sparati a caso o consapevolmente falsi se ne sentono quotidianamente da praticamente tutti, dall’attuale Presidente del Consiglio a scendere (rimando al sito di Pagella Politica per un approfondimento). Quello che però mi colpì di questa particolare dichiarazione, oltre all’astronomica differenza tra narrazione e realtà, fu la sua reiterazione in tutte le occasioni pubbliche, tanto che presto diventò un vero e proprio slogan ripreso poi da altri politici di opposizione che ne intuivano la potenza retorica. Andai a vedermi anche molti video in cui il leader del M5S ribadiva questo concetto. Di solito uno lo vede, quando lo sa, quel fremito, quel movimento delle pupille verso l’alto, quel tergiversare della voce che denuncia il momento in cui un essere umano sta per dire una balla in pubblico o, semplicemente, sta dando numeri a caso. Ma Grillo (come del resto Farage o Trump) no. Ogni nuovo intervento in cui parlava dell’argomento era anche più denso di particolari (tutti incorretti) del precedente. E soprattutto sembrava sincero. Anzi, ancora oggi, riguardando gli stessi video, potrei giurare che Grillo era sincero.
Ma come si può essere bugiardi e sinceri allo stesso tempo? È per rispondere a domande come questa che viene in aiuto una disciplina considerata da anni inutile, obsoleta, anti-scientifica e in generale troppo lenta per i tempi moderni, spesso anche accademicamente relegata in un dimenticatoio come l’alchimia, l’astronomia e i libri di Massimo D’Alema: la filosofia contemporanea. La quale, se opportunamente accompagnata da considerazioni sul wrestling professionistico (che invece non può nulla per i libri di D’Alema) può ancora dare sorprendenti risposte a quesiti importanti.
Secondo Harry Frankfurt il più grande risultato della “bullshit” (letteralmente “merda di toro”, traducibile in italiano in “stronzata” o, in forma di verbo, in “sparare stronzate”) è fare in modo che valore della “sincerità”, del credere a ciò che si dice, si sostituisca a quello della “correttezza” di ciò che si dice. Una dinamica che diventa più semplice quando si ha a che fare con un mondo assai complesso in cui è facile perdersi nei meandri del vero e non vero: se ho la crescente sensazione che la verità sia diventata sempre più un concetto relativo, pensa il membro del pubblico di un comizio di Trump (o di un match di John Cena), tutto ciò che mi resta è la sincerità: l’impressione che le persone credano a quel che dicono. E che quello che dicono sia per me di qualche conforto. È così che la sincerità diventa essa stessa “bullshit”.
Il punto è che i Grillo, i Berlusconi, i Farage e i Trump (e in misura minore molti altri politici del panorama europeo) hanno avuto (o copiato) con decenni di ritardo la grande intuizione di Vince MacMahon. Come lui, hanno saputo rompere la tradizionale dicotomia tra verità e bugia, tra reale e falso, entrando in un campo nuovo, definito dal Frankfurt con un termine dall’apparenza volgare e moralmente degradante ma che nella nuova definizione fornita dal filosofo dell’Università di Princeton assume un valore totalmente nuovo. Perché bullshiter (lo “sparatore di stronzate”) non è un bugiardo. Coloro che affermano pedissequamente il vero e coloro che invece lo alterano per i loro fini più disparati hanno una cosa in comune: conoscono la verità. La cercano, la maneggiano e, all’occorrenza, la alterano nella loro comunicazione. Il bugiardo sa la verità, e in qualche modo la sua azione diparte da essa. Il bullshiter è diverso per un solo aspetto fondamentale: non avere alcun interesse per la verità e quindi, spesso, nemmeno alcuna conoscenza di essa.
Fin qui niente di nuovo se parliamo di quelli che stanno sul palco: un argomento che è stato affrontato e ripetuto parlando di Trump, di Farage e dei movimenti populisti in generale è proprio il loro disinteresse la verità. “La verità ha per Trump l’importanza che ha per un babbuino il posto vacante alla Corte Suprema: ‘non so di cosa parli, ora per favore va a farti fottere, ho una banana’” diceva qualche mese fa il comico John Oliver. Ma meno si è parlato di coloro che stanno sotto il palco. L’argomento nei loro confronti, spesso paternalista, li vede spesso come persone circuite, troppo ignoranti per comprendere la differenza fra vero e falso, per comprendere di essere ingannate. Come se nel wrestling la recita fosse solo quella che avviene sul ring e che quella che avviene sugli spalti tra il pubblico che urla e tifa non abbia eguale importanza. Ma dove starebbe il senso del successo di Vincent MacMahon se non nell’intuizione del Wrestling come recita di massa? Come per il fan del wrestling non ha alcuna importanza che i due contendenti a un certo punto inizino veramente a darsele di santa ragione o continuino fino alla fine seguendo il copione, per il fan di Trump, di Farage o di Grillo, che ciò che viene detto sul palco sia effettivamente reale o meno non ha più importanza di quanto non ce l’abbia per chi sta sopra il palco. E non perchè ciò che viene detto sia sempre falso. Se un giorno il Fondo Monetario Internazionale da ragione a Grillo dicendo che le misure contro la Grecia sono inutili e dannose il Fondo diventa una fonte credibile. Se condannasse le ricette economiche M5S come inattuabili il FMI diventerebbe improvvisamente solo il megafono dei poteri forti.
La recita a volte si scopre quando, come purtroppo al contrario del wrestling accade in politica, i suoi atti teatrali hanno effetti “reali”. Lo si poteva leggere nelle espressioni di incredulità e sgomento delle persone che il giorno dopo il referendum inglese affermavano innocentemente di aver votato Brexit “non pensando seriamente che accadesse”. Perchè la retorica del “nuovo giorno dell’indipendenza”, del “our country back”, della paura dell’”invasione” costruivano un ottimo kayfable. Un copione, mica la realtà.
La gente, quella che vota Trump o Farage, è perfettamente consapevole della natura circense dello show. Quel che non intuisce perfettamente è la gravità dei possibili effetti pratici e, soprattutto, l’incapacità a lungo andare di uscire dalla recita pur essendo consapevoli che si tratta di una recita. Ma come in uno spettacolo di prestigio la gente non è interessata a scoprire il trucco che alimenta certe illusioni. Fino a volte dimenticarsi perfino che esiste, il trucco. E magari a pensare che Copperfield quando fa sparire la Statua della Libertà chissà.. forse un po’ di magia la possiede veramente.
Tutto questo per un motivo molto semplice: perché ciò che molte persone comprendono della realtà, soprattutto della realtà della globalizzazione — l’unico vero concetto contro cui si scaglia ogni tipo di populismo moderno di “destra” o di “sinistra” — le vede inevitabilmente perdenti.
Nel 1997 un gruppo di scienziati capitanati dal professor Jamie Arndt dell’Università dell’Arizona portarono avanti una serie di esperimenti in cui si inducevano “stimoli death-related” (letteralmente “stimoli legati alla morte”) a una popolazione per analizzarne le reazioni rispetto a credenze e visioni del mondo. In pratica si sottoponevano a queste persone messaggi che in modo diretto o indiretto ricordavano loro l’inevitabilità della loro morte: in altre parole, le si spaventava di brutto. I membri del team di ricerca si accorsero così che le persone sottoposte a tali input erano molto più propense a rifugiarsi acriticamente in visioni del mondo nelle quali trovavano rassicurazione. Rassicurazione e non verità è il primo criterio di scelta. E non perché non fossero intellettualmente in grado di discernere quel che di vero vero e di falso c’era in quelle visioni del mondo. Ma perché, come accade nella bull session, se siamo andati in bianco in disco per settimane di fila quando siamo con gli amici preferiamo di gran lunga sparare stronzate su scopate leggendarie, ben consapevoli che i nostri interlocutori saranno consapevoli almeno di parte della natura delle nostre stronzate. Perché in quel momento a nessuno interessa la verità. Perché ciò che interessa a tutti è il modo in cui dire certe cose a voce alta ci fa sentire (meno “sfigati” e più “vincenti”), con la complicità di quelli che ci circondano, ai quali restituiremo il favore alla prima occasione. Ed è così che “ne ho rimorchiate tre in una sera” diventa contenutisticamente e psicologicamente non dissimile da “We want out country back” o “America great again”. Non dissimile alla mossa volante di Micky Rourke in “The Wastler”. Finta, ma che può essere allo stesso tempo anche mortale, come la finzione che all’improvviso riesce a fare violentemente irruzione nella realtà.
Commentando lo scandalo politico del 1971 sui “Pentagon Papers” Hannah Harndt scrisse che “in circostanze normali il bugiardo viene sconfitto dalla realtà, per la quale non esiste sostituto. […] Questa è una delle lezioni che abbiamo potuto imparare dagli esperiementi totalitari e dai governo autoritari. […] Arriva sempre il punto in cui mentire diventa controproducente. Questo punto viene raggiunto quando il pubblico al quale le menzogne vengono raccontate è costretto a ignorare interamente la linea tra vero e falso per poter sopravvivere”.
Arriva un punto in cui la recita esaurisce il suo scopo, quando l’incontro finisce e quello che rimane è una maglietta firmata e una action-figure. Ma in politica la recita dura molto più di un’oretta scarsa e porta con sé assai più conseguenze di qualche livido e un tatuaggio di The Rock fatto da sbronzi. Quanto è impossibile saperlo, ma di sicuro sappiamo che con la Brexit siamo entrati nel vivo di questa illusione diventata mondiale e che si gioca su tanti palchi diversi in tutto l’Occidente ma che ha un unico filone: la fine del mondo “aperto” che da questa parte del mondo abbiamo conosciuto. Un mondo sotto attacco da “destra” (chiusura alla circolazione delle persone) e da “sinistra” (chiusura alla circolazione dei capitali) e che ha ignorato per molto tempo gravi effetti come l’aumento drammatico delle disuguaglianze all’interno dei singoli paesi. Ma, e questo lo si dimentica in continuazione anche nel dibattito attuale, ha prodotto uno dei più grandi livellamenti delle diseguaglianze globali mai sperimentati proprio grazie a quei meccanismi di delocalizzazione ed esportazione dei capitali.
Il 2 Novembre prossimo, con le elezioni statunitensi, potremmo vivere un altro capitolo cruciale di questo show che sotto una montagna di merda di toro è in fondo solo questo: lo scontro tra chi perde e chi vince in un mondo aperto. E poi chissà quanti altri, prima che la verità, drammaticamente, torni a essere indispensabile per sopravvivere. Prima che dopo solo due o tre generazioni dall’ultima volta, saremo di nuovo in grado di ricordarci sul serio gli effetti drammatici della chiusura dell’illiberismo. Prima che il pubblico si stanchi dell’incontro, delle botte finte, della chiacchiera da bar. Prima che si stanchi della politica diventata wrestling.
@Ibn_Trovarelli
Articolo originale su https://medium.com/@ibn_trovarelli/the-wrestlers-f05744d03823#.p3ixw5t72
Anche se può sembrare incredibile, secondo studi storici il Wrestling professionistico di Hulk Hogan, The Rock, John Cena e Rey Mysterio affonda le proprie radici nell’Europa del tardo Ottocento. Al contrario di oggi però, durante le sue prime decadi di vita sulle carovane itineranti dei circhi di villaggio questa lotta “circense” aveva sempre mantenuto una totale riserbo sulla natura “concordata” delle esibizioni. Le trame dei vari incontri venivano rigorosamente programmate passo dopo passo e registrate all’interno di un documento segreto, una sorta di copione teatrale, accessibile solo ai contendenti: il “kayfable”.
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