Giuseppe Scognamiglio, direttore di Eastwest, racconta la sua avventura quotidiana alle Convention USA.
Atterro nella cittá Natale di Superman, antenato ideale per The Donald, sempre più super nella retorica tutta patria, famiglia e onestà. La città è una copia forse più provinciale e meno aggressiva di Chicago, sulle sponde del Lago Erie, dall’altra parte c’è il Canada. Gli inverni sono freddissimi, i locali mi dicono che c’è meno vento che a Chicago ma molta più neve…
I dintorni del palazzetto dello sport, dove si tiene la Convention, sono animatissimi da centinaia di persone che affollano le decine di pub e ristoranti con tavoli all’aperto, evento che dura due mesi, gli unici che consentono una temperatura come quella di oggi, piacevolissima tra i 24 e i 29 gradi.
Ho potuto seguire purtroppo la prima serata solo dagli schermi posizionati un po’ dovunque in città: le televisioni americane hanno improvvisato studi televisivi all’aperto in ogni angolo di strada confinante con The Q, il nome dato al palazzetto dello sport (basket, football americano, pattinaggio artistico) dove si sono riuniti i Repubblicani per incoronare SuperTrump in una serata il cui claim è America first again.
Mi sono infatti scontrato con le strane regole di un paese a volte rigido e standardizzato: oggi è la terza (su quattro) giornata di Convention, che ha il suo focus dalle 19 a mezzanotte. Provo ad entrare nell’hall di un palazzone dove dovrei ricevere il badge per poter essere ammesso alla Covention. Chiuso! Bè, certamente, l’orario pubblicato una settimana prima su internet dice chiaramente 10-17. Ma ho voluto provare lo stesso perchè, mi sono detto, è strano chiudere alle 17 quando la Convention inizia alle 19. E invece non solo è proprio così (regola stupida) ma – dopo aver fatto 11 ore di aereo e risposto a decine di mail (quindi super testato!) per entrare nella pancia del Partito Repubblicano e dell’America più profonda – mi sento mandare sgarbatamente a quel paese da uno stupido e rigido poliziotto, lasciato irresponsabilmente a rispondere ai tentativi last minute come il mio. Niente da fare, mi devo accontentare del contorno e ripassare domani…
Ascolto una serie di interventi durante i quali la politica mi sembra la grande assente: esaltazione della persona Trump, il non politico di professione (forse uno dei segreti del suo successo) “l’unico in grado di risollevare i destini dell’America bianca”. Ascoltando il figlio, mi veniva in mente la preghiera “Ascoltaci Signore”, per la ritualità e ripetitività che il giovane Trump ha deciso di attribuire al suo intervento, durante il quale sosteneva ritmicamente l’invito a votare per il padre. Protagonisti dunque i figli del magnate, insieme al candidato Vice Presidente, Governatore dell’Indiana Pence, che annuncia di aver accettato la candidatura a Vice Presidentr, appunto. Tutti ricordano di avere un padre che ha fatto la guerra in Vietnam o addirittura in Corea, un figlio marine o i nonni emigrati polacchi, come la popolare anchor woman della radio che ha aperto la serata. Il solo intervento davvero politico è quello del senatore texano Ted Cruz, già avversario di Trump alle primarie, che ruba la scena al grande comunicatore con una mossa a sorpresa: rifiuta di sostenere Trump, posizionandosi di fatto come un possibile candidato al prossimo turmo, fra quattro anni. Oggi è minoritario ed espressione di un preoccupante estremismo religioso.
Oggi Trump si è dovuto accontentare del secondo piano, ma domani tocca a lui!
Atterro nella cittá Natale di Superman, antenato ideale per The Donald, sempre più super nella retorica tutta patria, famiglia e onestà. La città è una copia forse più provinciale e meno aggressiva di Chicago, sulle sponde del Lago Erie, dall’altra parte c’è il Canada. Gli inverni sono freddissimi, i locali mi dicono che c’è meno vento che a Chicago ma molta più neve…