L’ultimo rapporto di Amnesty International sul rispetto dei diritti umani in Marocco, presentato ieri a Rabat, non fa molto onore al Regno. E conferma più o meno quanto già segnalato da altre organizzazioni come Human Rights Watch e Freedom House nei loro recenti dossier: il Royaume in questi anni non ha fatto molti progressi nel riconoscimento dei diritti e nel rispetto delle libertà fondamentali.
Se ultimamente ha provato a raddrizzare il tiro sulle politiche migratorie con una massiccia campagna di regolarizzazioni di migranti sub-sahariani, circa ventisettemila, molti altri diritti vengono sistematicamente calpestati se non dimenticati.
La libertà di espressione, per esempio, è stata mortificata più volte nel corso del 2014 con l’arresto di giornalisti, attivisti, persino cantanti.
Othame Atik, alias Mr Crazy, a 17 anni ha scontato tre mesi di prigione tra settembre e novembre 2014 perché in un suo video avrebbe oltraggiato la polizia marocchina, attentato alla pubblica moralità, offeso l’inno nazionale e incitato al consumo di droga. In realtà la sua canzone descrive semplicemente le difficoltà della vita quotidiana nei quartieri più disagiati di Casablanca, a volte mutuando le parole dell’inno nazionale.
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Oppure la storia della giornalista Ali Anouzla, arrestata a settembre 2013 per “apologia del terrorismo”. Avrebbe commesso reato nel pubblicare sul sito di informazione Lakome, conosciuto per essere uno dei più indipendenti in Marocco e anche uno dei più critici verso l’attuale governo, un video di al-Qaida nel Maghreb.
Non hanno vita facile neanche le organizzazioni non governative, Amnesty compresa, a cui è stato impedito più volte e con diversi escamotage di operare sul territorio nel rispetto della legge. L’impunita eccellente invece resta la polizia mentre la tortura rimane la tecnica prediletta per estorcere confessioni e prove. Soprattutto se praticata sui detenuti Saharawi, considerati prigionieri politici a tutti gli effetti.
Nel corso del 2014 sono stati denunciati diversi casi di abusi nelle carceri sugli attivisti Saharawi, alcuni dei quali hanno reagito con lo sciopero della fame. Il Marocco si è sempre difeso ammettendo l’esistenza di “casi isolati” di torture, ma non di “torture sistematiche”. La questione dei Saharawi continua a essere il punto più dolente della politica del regno, che sul rispetto dei diritti nel Sahara Occidentale di progressi non ne ha fatti proprio.
Risale a giusto un anno fa la morte di Mohamed Iamin Haidala, un ragazzo di 21 anni brutalmente ferito da una famiglia di commercianti marocchini a El-Aauin, perché aveva provato a difendere i nonni dai coloni che li insultavano. La sua morte, causata dalla superficialità dei medici marocchini “solo perché era un Saharawi” – denuncia l’ONG Western Sahara Rights Watch – ancora fa rabbia. E oggi, nonostante le Nazioni Unite con la risoluzione 2152 del 29 aprile 2014 abbiano esortato il Marocco a incoraggiare e a rispettare la libertà di espressione e di associazione nel Sahara Occidentale, le cronache raccontano un’altra storia.
Raccontano di manifestazioni sistematicamente vietate, anche quando sono progettate nel rispetto della legge. Se poi gli organizzatori sono in odore di separatismo, allora scatta subito il divieto. E se non sono esplicitamente vietate, vengono comunque represse con durezza. Anche perché poi i processi a carico degli attivisti terminano sempre e solo con la condanna degli attivisti.
Ma qualcosa di positivo è accaduto anche in Marocco nel 2014, se pensiamo ai diritti e alle libertà. E’ successo che è stato riformato il Codice di Giustizia Militare, che dal 2015 vieta i processi dei civili dinanzi alla Corte marziale ed è successo che è stata finalmente abrogata la norma del codice penale che salvava dal carcere lo stupratore che sposasse la sua vittima.