Manca poco meno di un mese alle elezioni politiche del 4 marzo e la campagna elettorale è da tempo entrata nel vivo, trasformandosi a tratti in un dibattito scollegato dalla realtà, con toni propagandistici e legato da possibili misure “shock” dalla difficile attuazione e fattibilità.
In questo contesto si è inserito il monito del presidente della Repubblica Mattarella, il quale, temendo il rischio di disaffezione dei giovani e non nei confronti della politica, rivolgendosi a tutti i partiti, ha ricordato l’importanza di presentare programmi “realistici e credibili.”
La proposta avanzata da Pietro Grasso, leader di Liberi e Uguali (Leu), ha scatenato molte polemiche. Durante l’intervento all’assemblea programmatica del partito, l’attuale presidente del Senato, criticando le “irrealizzabili favole” portate avanti dagli altri partiti, ha presentato una delle misure cardine del suo programma: l’abolizione delle tasse universitarie. Difesa come una politica “concreta, vera e realizzabile,” con un investimento che dovrebbe costare 1,6 miliardi di euro, secondo il leader di Leu, tale misura permetterebbe la totale gratuità per gli oltre 1,5 milioni di studenti universitari attuali, e darebbe a chiunque la possibilità di studiare, contribuendo ad aumentare il numero di universitari.
Le critiche non si sono fatte attendere, diversi esponenti politici di rilievo hanno considerato irrealizzabile e demagogica la proposta avanzata da Grasso, definendola “trumpiana”.
Sostenere i costi delle università tramite la fiscalità generale, potrebbe avere una ricaduta gravosa a carico dei cittadini meno abbienti (ad oggi in buona parte esentati), i quali pagherebbero le tasse anche per quelli più ricchi. In assenza di una copertura alternativa, i mancati introiti sarebbero sostenuti dai soldi di tutti i contribuenti, anche quelli con i redditi più bassi. Una misura, vista così, effettivamente non proprio di sinistra.
Tuttavia, è importante precisare che non è ancora chiaro in che modo verrebbe supportata la stessa misura. La fiscalità generale è solamente una delle possibili soluzioni, ma a questa si affiancano la possibilità di inserire la misura in un’ottica di maggiore progressiva gratuità dell’accesso universitario, come recentemente affermato da Bersani, o utilizzando alcuni dei sussidi che ad oggi il nostro Paese spende in settori come quello ambientale per supportare le aziende più inquinanti, possibilità avanzata dello stesso leader di Leu.
Secondo molti, abolire le tasse universitarie non sarebbe nemmeno una vera e propria innovazione rispetto a ciò che sta già avvenendo, in parte, all’interno del mondo universitario. A tal proposito, grazie al debutto dello “Student act” varato durante il governo Gentiloni, nell’anno 2017/18, 1 iscritto su 3 rientra di diritto nella cosiddetta no-tax area, l’esonero totale dai contributi universitari per chi ha un Isee (indicatore di reddito e patrimonio familiare) inferiore ai 13mila euro. L’Inps parla di quasi 600 mila dichiarazioni Isee, presentate per le università, al di sotto della soglia dei 15mila euro, tetto autonomamente stabilito da molti atenei per poter aderire alla no-tax area (da alcuni esteso fino a 23mila euro). Stime probabilmente da vedere al rialzo, visto il possibile effetto a rimbalzo che la gratuità potrebbe avere sulle future immatricolazioni. Inoltre, anche a seguito dell’introduzione di questa misura, che prevede delle agevolazioni economiche anche per la fascia di Isee fra i 13 mila euro e i 30mila (un altro circa 33% del totale degli iscritti universitari, considerando i dati Istat del 2015), diversi atenei hanno recentemente segnalato un incremento nel numero degli iscritti.
Ma quanto costa l’università italiana e cosa accade nel resto d’Europa?
Secondo i dati dell’Udu (l’Unione degli universitari), in media in Italia nel 2015/2016 il contributo pagato dagli studenti è stato attestato di circa 1250 euro. Inoltre, l’associazione parla di un aumento di oltre il 60% delle tasse universitarie a carico delle famiglie negli ultimi 10 anni e di un Paese con profonde differenze. I contributi universitari crescono man mano che ci spostiamo dal Sud al Nord.
Allarghiamo i nostri orizzonti. In Danimarca, Svezia, Finlandia e Lussemburgo l’università è gratuita. In Germania e Austria i costi sono estremamente ridotti, e sono legati al pagamento (scontato) di abbonamenti ai mezzi pubblici. I Paesi con sistemi universitari aventi bassi livelli di tassazione (inferiori ai 1000 euro annuali) sono numerosi e fra questi troviamo il Belgio, la Bulgaria, la Croazia, la Francia, l’Islanda e la Turchia. Fra le nazioni con una tassazione superiore ai 1000 euro, oltre al nostro Paese, c’è l’Irlanda, la Spagna, il Portogallo, i Paesi Bassi e la Svizzera. La maglia nera spetta al Regno Unito (Inghilterra e Galles), dove la cifra a carico dello studente può superare i 10mila euro. Dunque, le tasse universitarie italiane sono fra le più care a livello europeo.
Tirando le somme, la fascia più agevolata da una potenziale abolizione totale delle tasse universitarie sarebbe quella ad oggi non considerata da alcuna gratuità o agevolazione fiscale, che paga le somme più elevate di tasse universitarie: quella con redditi dai 30 mila euro fino a oltre 75mila euro (il restante 30% circa di studenti universitari). Non soltanto dunque i figli dei “ricchi,” ma anche le famiglie con un reddito medio, sulle quali le rette universitarie sicuramente hanno un peso non indifferente. Inoltre, tale misura non andrebbe necessariamente a sfavorire le fasce meno abbienti (dipenderebbe, come detto, dal tipo di supportato finanziario legato alla stessa misura).
Dunque, un taglio importante legato alle tasse universitarie, sebbene sia necessario trovare una copertura probabilmente diversa da quella classica della tassazione generale, sembra essere una misura da non sottovalutare e bollare come demagogica a priori. A tal proposito, risulta necessario continuare ad accendere i riflettori su temi importanti, come sono quelli del caro-rette e del mancato diritto allo studio.
Ad oggi il numero di laureati italiani è nettamente inferiore (18%) alla media dei Paesi più sviluppati dell’Osce (37%) e siamo penultimi in Europa per numero di laureati. Inoltre, secondo una recente inchiesta del Corriere della Sera, nel 2016 appena il 10% degli studenti hanno beneficiato di una borsa di studio; paragone impietoso a livello europeo: considerando il 30% della Spagna o il 40% degli studenti francesi. Nel dettaglio, viene sottolineata l’assurdità del fenomeno degli “idonei non beneficiari,” ovvero di quegli studenti che hanno diritto ad una borsa di studio, ma non ricevono alcun supporto economico a causa dell’assenza di fondi. Sebbene grazie allo “Student act” le cose dovrebbero migliorare, la stessa misura sembra intercettare una fetta non sufficiente rispetto alla platea di studenti che avrebbero bisogno di un supporto economico per proseguire gli studi. Supportata da 105 milioni di euro annuali, la stessa non è stata ritenuta bastevole da molte rappresentanze studentesche e atenei, tanto che diverse università per coprire i costi aggiuntivi hanno dovuto aumentare le tasse per i redditi più alti e per gli studenti fuori corso.
In questo delicato dibattito relativo al diritto allo studio, dovremmo tenere in considerazione altri costi, oltre a quelli legati alle rette universitarie. Altre agevolazioni e esenzioni supportate in altri Paesi europei, totalmente assenti nel nostro, riguardando elementi come i contributi per gli alloggi, le bollette e gli abbonamenti ai mezzi pubblici. Supporti essenziali, considerato il numero elevato di studenti italiani che vivono fuori sede (circa il 25% degli studenti totali). Facciamo alcuni esempi.
In Finlandia e Danimarca gli studenti ricevono aiuti economici dallo Stato, tramite borse di studio e prestiti (da restituire in genere dopo negli anni successivi alla laurea) che permettono di coprire la maggior parte delle spese universitarie, che possono essere non indifferenti, a prescindere dal livello di tassazione universitaria. In Germania (dove non esistono tasse universitarie nella maggior parte dei Länder) si hanno rilevanti sconti ai mezzi pubblici, ogni studente europeo sotto una certa soglia di reddito ha diritto ad un alloggio sostenuto dallo Stato ed è presente un efficiente sistema di borse di studio. In Francia (fra le tasse più basse a livello europeo) ogni studente riceve un aiuto economico per la casa, dai 115 ai 200 euro al mese per l’affitto.
La direzione segnata dallo “Student Act” è giusta, ma vi è la chiara sensazione che vi sia ancora molta strada da fare. Da dove partire?
Dal diritto allo studio. Dobbiamo ripartire dai buoni “insegnamenti” di alcuni Paesi europei come Germania e Francia, dagli sconti ai mezzi pubblici, da un efficiente sistema di borse di studio che tenga in considerazione sia indicatore reddituali che di merito e dai supporti economici per gli alloggi universitari. Inoltre, è bene ricordarsi che il funzionamento di una società, la possibilità per molti giovani di riuscire ad immaginarsi un futuro, andando oltre la coltre del grigio presente, passano dalla difesa di questo diritto fondamentale ed inalienabile. Un diritto, considerando i dati relativi al bassissimo numero di studenti universitari e all’elevato tasso di abbandono universitario, che rischia di rimanere solo su carta come tale.
Aumentare il numero delle borse di studio, finanziando in primis le numerose che spettano per legge a decine di migliaia di studenti (universitari, ma anche liceali), ma che di fatto ad oggi sono vergognosamente negate. Diminuire le tasse per i redditi fino ai 30mila euro (al momento attorno ai 1000 euro) ed investire sugli alloggi pubblici per gli studenti (sopperendo ai costi degli affitti, fra le spese più gravose per i fuorisede). Inoltre, due elementi essenziali da inserire nel dibattito politico per poter supportare un incremento del numero degli studenti universitari, riguardano l’aumento del corpo docenti (quasi ovunque sottodimensionato) e i forti investimenti necessari riguardanti le strutture universitarie. Infine, allargare la tanto declamata no-tax area, che al momento va a supportare, come detto, una platea troppo ristretta, estendendola fino a 23mila euro. I dati parlano di oltre il 30% degli studenti con un reddito fra i 15 mila e i 30 mila euro, per i quali tale misura potrebbe portare vantaggi rilevanti, specialmente considerando la grave mancanza di agevolazioni allo studio significative.
Manca poco meno di un mese alle elezioni politiche del 4 marzo e la campagna elettorale è da tempo entrata nel vivo, trasformandosi a tratti in un dibattito scollegato dalla realtà, con toni propagandistici e legato da possibili misure “shock” dalla difficile attuazione e fattibilità.