Da un lato chi vuole aiutare la classe media, dall’altro chi desidera sostenere quella elevata. Da un lato chi vuole più globalizzazione e più rapporti internazionali, dall’altro chi sostiene l’idea che il paese debba evitare di mostrare il fianco agli “invasori economici”. Le elezioni presidenziali statunitensi hanno assunto una polarizzazione mai vista prima. Ed è merito dei due candidati, Hillary Rodham Clinton per i Democratici e Donald John Trump per i Repubblicani, se si è giunti a questo punto. Due diverse idee di sviluppo per gli Stati Uniti, due diverse visioni del mondo. Ma non è ancora detto che una delle due sia quella che oggi serve agli Usa.
Mentre Janet Yellen, presidente della Federal Reserve, sta valutando l’impatto globale, presente e futuro, della Brexit, il dibattito sulle posizioni di politica economica dei due candidati alla successione di Barack Obama alla White House è passato un po’ sottotraccia. Eppure, manca poco alle due convention, dei Dem a Philadelphia e del Grand Old Party (Gop) a Cleveland, che dovranno sancire una volta per tutte la linea economica per gli Usa. Un’America in cui Wall Street, cioè gli indici S&P 500 e Dow Jones, sono ai massimi storici, dove i treasuries (i bond governativi, ndr) non sono mai stato così poco redditizi e dove non ci sono mai stati così tanti segnali di squilibri sui prezzi in determinati settori, come quello immobiliare o come quelli dei titoli azionari legati ai social media.
Le tasse – Sono quattro i campi fin qui discussi dall’immobiliarista newyorkese e dall’ex Segretario di Stato. Il primo riguarda la tassazione. La Clinton vuole incrementare l’aliquota di quattro punti percentuali a chi supera il reddito imponibile di 5 milioni di dollari l’anno, per portarla così al 43,6%. Allo stesso tempo, chi registra un reddito oltre al milione di dollari l’anno non potrà avere un’aliquota inferiore al 30%. Inoltre, secondo le idee della Clinton, saranno ridotte «drasticamente» le esenzioni per le fasce di reddito più significative. È questo il tentativo di migliorare l’uguaglianza in un paese, gli Usa, che dopo il crac di Lehman Brothers hanno visto aumentare le disparità sociali in modo rilevante.
Di contro, The Donald vuole abbassare l’aliquota fiscale per le fasce di reddito più elevate, a oggi al 39.6%, a 25 punti percentuali. Ma non solo. La sua idea di fondo è quella della semplificazione: tre aliquote al posto di sette. Oltre a quella del 25%, una al 20% e una al 10%, in modo da favorire le iniziative imprenditoriali. E per la finanza? Tasse sui dividendi e sul capital gain fissata al 20% massimo, niente di più niente di meno. Infine, a differenza di Hillary, Trump non ha intenzione di continuare con l’esperienza della tassazione delle proprietà immobiliari più grandi.
Il commercio e la globalizzazione – C’è chi è contro, come Trump, e chi è a favore, seppur con riserve, come Clinton. Quest’ultima è contraria alla Trans-Pacific Partnership (Tpp), sebbene fosse stata una delle principali sostenitrici negli anni scorsi. La narrativa però è mutata. Più Trump attacca su Tpp, su Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip), su commercio con il Messico e con la Cina, più la Clinton si vede costretta a inseguire questa dialettica per non perdere potenziali elettori. Quella che prima del collasso di Lehman Brothers era la classe media, soprattutto stanziata nel Midwest e nelle Great Plains, ora viene corteggiata da Trump grazie all’idea che ispanici e immigrati stiano rubando lavoro agli americani.
Ma è possibile fermare un processo, come la globalizzazione, che ha generato benessere a livello planetario? No, a meno di non fare come ha proposto Trump. Protezionismo, dumping, limitazioni alle importazioni e alle esportazioni. Quali sono però i possibili effetti collaterali per l’economia statunitense? Finora nessuno dello staff di Trump lo ha saputo specificare. E dalla Federal Reserve tengono le bocche cucite. «Non possiamo permetterci di commentare, ma le nostre idee sono ben specifiche», spiega un senior economist dell’istituzione guidata dalla Yellen.
Salario minimo – L’altro fronte di divergenza è sul salario minimo. In primis, Trump ha pensato fosse giusto mantenerlo, a livello federale, a quota 7,25 dollari l’ora. Ma secondo fonti bene informate starebbe pensando di rimodulare la sua proposta di politica economica, con lo scopo ultimo di attrarre tutti gli elettori ancora indecisi, sia sul versante democratico sia su quello repubblicano.
Sul versante opposto, facendo propria la battaglia del suo principale sfidante Dem, il senatore del Vermont Bernie Sanders, la Clinton continua a supportare il salario minimo, su base federale, di 12 dollari l’ora. Ma è anche a favore di un innalzamento fino a 15 dollari l’ora su base statale, laddove fosse possibile.
Infrastrutture – È questo il punto che può garantire la vittoria, almeno sotto il profilo della politica economica, alla Clinton. Questo perché, mentre Trump non ha ancora presentato alcun piano (ma potrebbe farlo a Cleveland durante la convention del Gop), l’ex First Lady ha garantito un programma di spesa per infrastrutture pubbliche da 275 miliardi di dollari, di cui 250 spendibili nell’arco del prossimo lustro e 25 allocati in una banca per lo sviluppo futuro del paese, anche dopo il suo – eventuale – mandato. Una proposta che starebbe, secondo i sondaggi monitorati da Real Clear Politics, facendo breccia nel cuore degli indecisi e nella sempre più ridotta classe media.
Cosa aspettarsi – I mesi che separano gli Usa dalle urne saranno all’insegna del conflitto senza confini tra Hillary e The Donald. Il tutto nonostante un’economia che, secondo le stime della Fed, sta limando le disomogeneità in tutti i dodici distretti, non mostra eccessivi segnali di surriscaldamento, sta reagendo bene all’exit strategy dalla politica monetaria di tassi prossimi allo zero e va verso la piena occupazione. In pratica, viaggia meglio di quando Obama ha iniziato il suo secondo mandato. Riusciranno Clinton e Trump a evitare un deragliamento? Per ora quello che è sicuro, come ricordano J.P. Morgan e Wells Fargo, è che più si perde di vista l’orizzonte del lungo periodo per focalizzarsi sul breve, più gli Stati Uniti diventeranno vulnerabili. La ricerca del consenso elettorale, quindi, può rivelarsi pericolosa sia per Trump sia per Clinton sia, soprattutto, per gli Usa.