Un Paese fermo ai tempi dell’Unione Sovietica. Giornalisti e attivisti sono censurati, espulsi, arrestati e picchiati, ma tutto in perfetta armonia. La Bielorussia è una tirannide che funziona.

A prima vista la Repubblica di Belarus sembra uno Stato a metà tra Polonia e Russia di 15 anni fa; in realtà è ferma al futurismo sovietico anni Venti. Le fermate della metro sono state progettate sui bozzetti di Metropolis; il resto dell’urbanistica è una copia in calcestruzzo di Le Corbusier. La capitale Minsk è imponente ma, quella percepita, è una grandezza quasi funebre; dal granito cimiteriale che riveste gli edifici, ai garofani in vendita nei fiorai dei sottopassaggi.
Più che il Paese dell’utopia, Dranikiland (come la definisce Vladimir Tsesler) è il Paese senza entropia, dove tutto rimane inesorabilmente uguale nei decenni. Ci sono statue di Dzerzhinsky nei parchi, e i servizi segreti si chiamano ancora KGB. Come i soldati giapponesi dispersi che continuavano a stare all’erta 30 anni dopo la fine della guerra, i Bielorussi sono rimasti fedeli alla linea, nonostante l’opposta direzione presa della storia e l’abiura del proprio generale. Quella bielorussa è una dittatura del kitsch. È come l’acconciatura col riporto del suo Presidente: un buffo tentativo di mostrare ciò che non si è, o che non si ha. Ma l’estetica di regime, versione provinciale del gusto URSS, fa brillare ancor di più le perle della cultura indipendente.
Uno dei posti dove nasce l’arcobaleno bielorusso è la Galleria Y, cuore pulsante della vita culturale di Minsk. È la base operativa di artisti come Ruslan Vashkevich, Sergey Shabohin, Mikhail Hulin e dei migliori scrittori del Paese che popolano anche l’adiacente casa editrice e libreria Logvinov. Il nome dell’unica rivista d’arte indipendente è anche un manifesto ideologico: pARTisan; ma sono davvero in pochi in Bielorussia ad intendere l’arte come avanguardia socialee la battaglia culturale come avamposto di quella politica. Aleksandr Zimenko, che conosce dall’interno le dinamiche del Ministero della cultura, spiega che il governo teme l’arte contemporanea perché non la comprende, e per paura di non riuscire a cogliere di volta in volta eventuali metafore contro il potere, preferisce buttar via il bambino con l’acqua sporca. Qui la critica al Presidente è dileggio alla patria, ed è punita severamente.
A parte questo i problemi maggiori per gli artisti indipendenti sono di natura economica; il pubblico pagante è ristretto, i finanziatori privati sono pochissimi perché l’80% dell’economia è nelle mani dello Stato, che valuta accuratamente di chi essere mecenate. In Bielorussia l’antico adagio liberale è rovesciato; qui tutto ciò che non è espressamente consentito dalla legge è proibito. Se non si entra nel cerchio magico del Ministero, con pubblici e ripetuti endorsement al regime, gli ostacoli di natura economica e burocratica rendono impossibile che lo show diventi business. Per il teatro la situazione è anche peggiore. Decidere cosa mettere in scena significa non solo rinunciare al supporto statale, ma anche a quello privato. Il teatro d’opposizione poi è un’altra storia. I registi del Free Theatre, in esilio a Londra, sono costretti a dirigere i loro attori tramite webcam. Le loro performance, in una vecchia casa all’estrema periferia di Minsk, sono monitorate dalla polizia, che controlla e scheda anche l’identità degli spettatori. Per lo scrittore Pavel Kostyukevich la caotica condizione ideologica del Paese con la de-russificazione, il post-colonialismo e l’apertura al capitalismo globale è esaltante per artisti ed autori d’ogni genere che creano opere, oggi tra le più interessanti d’Europa. Nonostante il Paese sia 154° su 177 nel ranking della libertà economica, un progetto innovativo potrebbe paradossalmente avere successo perché l’unico sulla piazza, e perché il Paese cresce a ritmi che l’Eurozona si sogna.
I giovani bielorussi sono infatti più sereni dei colleghi italiani sapendo che il loro tasso di occupazione è al 99,4%, e tutto ciò nonostante le sanzioni economiche imposte dal blocco UE-USA. Il settore dell’information technology è poi particolarmente sviluppato. Il basso costo degli ingegneri ha portato clienti internazionali come Google, Siemens, Mercedes-Benz, Samsung ad affidarsi a sviluppatori bielorussi. Applicazioni come Viber e giochi come World of Tanks sono fiori all’occhiello del Made in BY. L’economia in Bielorussia cresce a proprio agio tra le contraddizioni. Chi sa cosa penserebbe Lenin dell’enorme McDonald’s aperto sulla strada a lui intitolata. E chi sa se c’è una terza via tra l’odierno monopolio statale e la paventata svendita del patrimonio industriale nazionale agli oligarchi russi. Artur Klinau, editore e artista di prima grandezza nel Paese, dice che Dostoevskij deve aver frequentato Bielorussi a San Pietroburgo, perché nessuno meglio di lui ne ha descritto il carattere, la riservatezza, il cinismo, e il disincanto, quello necessario a sopravvivere in un regime ostinatamente anacronistico, e che fa dei Bielorussi di oggi una possibile avanguardia del nuovo millennio senza ideologie.
Un Paese fermo ai tempi dell’Unione Sovietica. Giornalisti e attivisti sono censurati, espulsi, arrestati e picchiati, ma tutto in perfetta armonia. La Bielorussia è una tirannide che funziona.